Mi ha sempre lasciato assai perplesso il fatto che raramente le nostre case editrici abbiano trattato l’argomento di uno sviluppo economico italiano avvenuto attraverso modalità fortemente accelerate, scarsamente accompagnate da un grado di ‘coscienza culturale’ adeguato alle trasformazioni in atto. Uno dei pochi romanzi che mi è capitato di leggere intorno all’argomento è stato ‘Fratelli d’Italia’ di Alberto Arbasino, la cronaca di un pellegrinaggio in un Paese completamente a soqquadro tra cantieri e grandi opere pubbliche. Ma a parte tale eccezione, l’andazzo complessivo della nostra produzione letteraria è sempre stato quello di concentrarsi esclusivamente sulla drammatica estinzione della nostra tradizionale cultura contadina e pre-industriale, in forma ora di idillio, ora di epicedio straziato verso i suoi ‘ragazzi di vita’ per Pier Paolo Pasolini, di resoconto della forzata irruzione della Storia in un mondo quasi immobile per Ferdinando Camon (‘Il quinto Stato’), di soave follia per Luigi Malerba (‘La scoperta dell’alfabeto’), di incurabile ipocondria verso i sentimenti aggravata dal lavoro in fabbrica per Paolo Volponi (‘Memoriale’). Già, la fabbrica, con tutto ciò che l’ha sempre accompagnata in termini di alienazione umana e di realistica analisi antropologica dei rapporti di lavoro: raramente essa è apparsa in primo piano all’interno della nostra produzione culturale. E il cosiddetto ‘romanzo industriale’, un genere che ha avuto grandi momenti di splendore in Germania, Francia e Inghilterra, qui da noi non è quasi mai riuscito a emergere dal ‘documentarismo’ più asettico e impalpabile. In chi ha sofferto una realtà di dissoluzione materiale, spirituale, morale e culturale, rimpianto e nostalgia si trasformano in qualcosa di ovvio, che non solleva problemi particolari. Ed è forse per queste motivazioni che l’unico scrittore impegnatosi a redigere con occhi veramente ‘asciutti’ il certificato di morte di un passato composto eminentemente da Dio, Patria e Famiglia sia stato Luigi Meneghello (‘Libera nos a malo’ e ‘Pomo pero’), il quale ha saputo mettere il proprio ‘illuminismo’ al servizio di un più logico ‘inventario linguistico’: se istituti, cibi, abiti, mestieri, giochi, ornamenti, farmaci, usanze domestiche e persino odori e sapori della vecchia ‘Italietta contadina’ si erano ormai ‘inabissati’, occorreva salvare la nostra memoria attraverso una serie di ‘tecniche di vita’ in grado di ‘infilzare’ con lo spillo dell’entomologo quelle parole che, per intere generazioni, hanno rappresentato un senso corrispondente alle ‘cose’. Maggiormente sensibile verso l’analisi antropologica della nostra vita quotidiana, il cinema italiano ha rappresentato uno specchio assai più fedele dei cambiamenti avvenuti nel nostro Paese: la ‘commedia all’italiana’ ha donato al pubblico spunti satirici e verità ‘squarcianti’ che hanno realmente illuminato le ordinarie vergogne di una cieca corsa, tutta italiana, verso un benessere grettamente materialista. Per esempio, ‘Divorzio all’italiana’ di Pietro Germi, tramite una ‘scettica eleganza’, ha saputo scherzare sull’assurdità di un codice penale che non puniva i ‘delitti d’onore’ del ‘maschio’ italiano, mentre ‘Una vita difficile’ di Dino Risi ha affrontato di petto il dramma di quegli italiani che hanno creduto negli ideali della Resistenza e che si sono visti travolti dalla iattanza cafona dei tanti ‘neo-ricchi’. Sempre Dino Risi, ne ‘Il sorpasso’, ha saputo ritrarre, attraverso un ritmo filmico tutto ‘a singulti’, la ‘giornata tipo’ di uno dei tanti parassiti che raccolgono le briciole dei nuovi modi di vita imposti da una modernità vacua, canagliesca e, alla fin fine, amarissima. Ma anche in questo settore, le leggi del successo e della commercializzazione sono riuscite a imporre la superficialità e l’involgarimento. Alcune pellicole di buona fattura hanno preteso di ‘intonacare’ la nostra ‘Storia – Patria’ diffondendo ideologie giustificazioniste e autoassolutorie: ‘La grande guerra’ di Mario Monicelli e ‘Tutti a casa’ di Luigi Comencini hanno presentato figure di italiani i cui tratti indolenti vengono addebitati alla nostra tradizionale ‘arte di arrangiarsi’, mentre la satira ha spesso degenerato nel ‘macchiettismo’ e nella bonaria presa in giro – mi sto riferendo, in particolare, al film ‘Il vigile’ di Luigi Zampa – di costumi e modi di vivere accettati con eccessiva indulgenza. Fortunatamente, qualcuno, a un certo punto, si è accorto che certe nostre ‘istituzioni’ non tenevano più. E, con tocco assai delicato, il grande Luchino Visconti, in ‘Rocco e i suoi fratelli’, ha splendidamente fotografato una famiglia di immigrati la cui esigua manciata di valori morali finisce col venir letteralmente ‘bruciata’ dai labirinti della grande città, mentre il geniale e fantasioso Federico Fellini, ne ‘La dolce vita’, è stato uno dei pochi a raccontarci una Roma stordita e corrotta, dove ogni compostezza sprofonda in un paganesimo provinciale che celebra i propri riti goderecci senza nemmeno saper attingere a una ‘grandiosa malvagità’. Poi giunse l’epoca del cinema ‘di denuncia civile’, dalla chiara impronta politica. Su tale versante, decisamente ‘accecanti’ si sono rivelati i film di Francesco Rosi (‘Le mani sulla città’ e ‘Il caso Mattei’), addirittura ‘radiografici’ quelli di Elio Petri (‘A ciascuno il suo’ e ‘La classe operaia va in Paradiso’), dolorosamente poetici quelli di Pier Paolo Pasolini (‘Uccellacci e uccellini’ e ‘Mamma Roma’), mentre a rammentare che l’istituzione maggiormente priva di tenuta è proprio la famiglia ci hanno pensato Marco Bellocchio (‘I pugni in tasca’), il ‘crudo’ Salvatore Samperi (‘Grazie zia’) ed il quasi ‘onirico’ Marco Ferreri (‘Dillinger è morto’), i quali hanno appuntato i propri ‘strali’ contro le atrocità del matrimonio, le ipocrisie del ‘familismo amorale’ all’italiana e gli egoismi dei moderni rapporti di coppia. In ogni caso, tranne queste eccezioni, in linea generale la nostra produzione letteraria e cinematografica ha sempre dato l’impressione di intrattenere con la realtà italiana un rapporto sovrastato dalle bronzee leggi degli schematismi ideologici: da una parte si è riprodotta un’Italia arcaica, pervasa da forme di sfruttamento e di sopraffazione che lo sviluppo economico non è stato mai in grado di ‘intaccare’ o, quanto meno, di correggere; dall’altra, si rincorrono i volti di una borghesia concepita nel più idealtipico dei modi, come un banale epifenomeno la cui ‘coscienza storica’, quando esiste, rappresenta solamente un ‘rivolo di spurgo’. E’ stato sostanzialmente questo il giudizio espresso sulla società italiana dal predominio comunista sulla cultura. Ed è quindi giunto il momento di affermare a chiare note che l’italo - marxismo è sempre stato trattenuto da un perdurante giudizio anti-industrialista, incapace di aprirsi ad una critica ‘superatrice’ del capitalismo. Ciò è avvenuto proprio a causa della politica culturale del Pci, che ha coltivato a lungo la paura dello sviluppo economico giudicando il ‘congelamento dei dualismi’ e delle permanenze pre-industriali come il viatico migliore per la crescita delle forze produttive, al fine di una transizione democratica al socialismo. Ma questo errore è disceso, a sua volta, dai ‘filtri’ a cui è stata sottoposta, qui da noi, la dottrina di Karl Marx dai due autori più amati, Antonio Gramsci e Gyorgy Lukacs, i quali, per ragioni diverse, sono sempre stati assai poco attratti dai problemi della modernizzazione: il primo perché era un pensatore sostanzialmente ottocentesco; il secondo, perché non è mai riuscito ad andare oltre a una concezione assai rigida della ‘totalità dottrinaria marxiana’. I tentativi migliori di riannodare i fili della riflessione di Marx all’evoluzione della società industriale – come ad esempio quello di Galvano Della Volpe, che ha sempre insistito sul metodo ‘galileiano’ del filosofo di Treviri, tentando altresì di aggirare autentici ‘macigni concettuali’ quali quelli di ‘rivoluzione’ e ‘socialismo’ postulando una ‘transvalutazione normativa’ della democrazia che passasse attraverso una serie di coraggiose ‘riforme di struttura’ – sono sempre stati ‘stroncati’ da bruschi richiami all’inammissibilità dei ‘saperi eclettici’. Di fronte a simili ‘lumi di luna’, la conseguenza culturale più devastante è storicamente risultata quella di una vera e propria messa in ‘quarantena’ delle cosiddette ‘scienze sociali’: mentre in tutti gli altri Paesi occidentali venivano regolarmente pubblicati i grandi classici della sociologia, da Weber a Durkheim, da Tonnies a Thomas e Znaniecki, da Aron a Kelsen, da Fromm a Galbraith, in Italia si è continuato a ‘setacciare’ la letteratura marxista e post-marxista internazionale proponendo Baran, Braveman, Lukacs, Sweezy, Horkheimer, Adorno, Marcuse e persino Mario Tronti. Un’egemonia di tal genere è derivata soprattutto da una classe intellettuale che ha voluto gettarsi ‘a capofitto’ nell’applicazione della teoria del materialismo storico alle arti e alle scienze, tentando di rompere il proprio ‘accerchiamento’ avvinghiando se stessa a una snobistica immagine di ‘intellettualità’ totalmente autoreferenziale. Esaurito il filone neo-realista, la narrativa italiana, in particolare, è vissuta in una sorta di ‘limbo’ complessivamente riluttante ad assumere ogni genere di trasformazione italiana come oggetto di riflessione critica, vagabondando straccamente tra un intimismo totalmente soggettivo e un ‘indifferentismo’ allergico a tutto, dalla televisione al cinema, dal calcio al turismo di massa. In forme linguisticamente assai diverse, solo tre romanzieri hanno assunto, nei riguardi del loro tempo, un atteggiamento che non fosse di supina accettazione o di aristocratico disdegno: Pier Paolo Pasolini, che con angoscia quasi mistica ha censito le potenti attitudini mortifere della modernità; Italo Calvino, che è riuscito a conservare una fiducia tutta illuminista nella possibilità di riuscire a dominare razionalmente il “brulicante mare dell’oggettività” contemplando il mondo dall’alto (come il suo ‘Barone rampante’, che decide di trascorrere la propria vita sopra un albero); e Leonardo Sciascia, la cui ‘sicilitudine ombrosa’ viene freddamente applicata a una implacabile diagnosi dell’organizzazione pianificata del male nelle società soggette a processi di arricchimento inegualitario e troppo accelerato. Infine, dopo una ‘lunga notte’ di muta erudizione rischiarata solamente dal ‘crocianesimo eterodosso’ di Federico Chabod e dal marxismo ‘rovistante’ di Delio Cantimori – uno storico ‘gentiliano’ funambolicamente accampatosi su posizioni di frontiera “per questioni di chiarezza” – il mondo dell’establishment editoriale e culturale italiano ha compiuto il suo capolavoro più orripilante: la creazione di una storiografia di ‘appartenenza’ che ha preteso di riscrivere la Storia d’Italia sottoforma di storia delle grandi forze popolari che hanno costruito la democrazia. Il profilo che è stato fornito del Partito socialista, del Partito comunista e dell’associazionismo cattolico è stato quello di movimenti abilitati al protagonismo politico del dopoguerra non soltanto dal patrimonio di lotta dell’antifascismo ma, e forse più, dalla loro estraneità alla tradizione del moderatismo prefascita. Ciò ha rappresentato un errore gravissimo, che ha rinchiuso l’esperienza autoritaria fascista all’interno di una ‘parentesi storica’ capitata quasi per caso, una gigantesca ‘rimozione collettiva’ che ha finito col giustificare ogni genere di revisionismo. Grazie al cielo, non sempre un’appartenenza esplicita ha fatto velo all’onestà intellettuale o è riuscita a ottundere le grandi capacità interpretative di alcuni storici: così, la ‘Storia del socialismo italiano’ di Gaetano Arfè è riuscita ad approdare a una ben argomentata rivalutazione del riformismo ‘turatiano’; la documentatissima ‘Storia del movimento cattolico in Italia’ di Gabriele De Rosa ha saputo trarre in superficie un insospettato continente di uomini e istituzioni - quello dell’intransigenza clericale e populista – in cui hanno sempre germinato ‘sensibilità sociali’ destinate a ‘vaccinare’ il cattolicesimo democratico dai pericoli del confessionalismo; la monumentale ‘Storia del Partito comunista italiano’ di Paolo Spriano ha sfatato leggende e pregiudizi intorno ad un Pci - legittimo erede del Machiavelli – mettendo a nudo quel cieco settarismo che lo ha reso responsabile di disastri ai quali è stato poi costretto a dover rimediare in fretta e furia; infine, Rosario Romeo, ne ‘Il giudizio storico sul Risorgimento’, oltre a rianimare un indirizzo di studi ormai negletto, ha saputo sforzarsi nel tentativo di salvare quei valori di libertà civile, di intraprendenza individuale, di serietà politica, di competenza amministrativa e di spirito di servizio verso le pubbliche istituzioni minacciate dalla demagogia tribunizia e dalle ‘elemosine’ di uno stato sociale concepito nella maniera più ‘assistenzialista’ che si potesse immaginare.