Nel corso dei tempi e della Storia, la filosofia che più convintamente ha cercato di porre freni e limiti alla supremazia statuale, salvaguardando i singoli individui dai privilegi e dagli abusi di potere dell’autorità pubblica tramite l’affermazione di una serie di diritti inalienabili, uguali per tutti gli uomini, è stata quella liberale. Ciò è rilevabile in tutti i campi: da quello giuridico, con i principi giusnaturalistici di Locke, a quello politico, con i teorici della divisione dei poteri dello Stato (Montesquieu), a quello economico, attraverso la rilevazione del liberismo e del valore dell’iniziativa individuale (Smith). Tuttavia, se questa è la formulazione originaria del liberalismo in sede scientifica, non si può non sottolineare come un dettato filosofico del genere abbia spesso corso il rischio di subire forzature ‘meccaniciste’ o espressamente strumentali. Esso, infatti, non è facilmente mantenibile in un preciso ambito dottrinario, potendo generare, al termine di processi storici di lungo periodo, pericolose involuzioni o addirittura il rischio di una dissoluzione dei suoi stessi principi. Un certo utilitarismo marginale o circostanziale ha spesso fortemente condizionato siffatta teoria, rinchiudendo eccessivamente nella sfera privata non soltanto il senso di religiosità dell’uomo, ma anche lo stesso processo evolutivo, interiore e psicologico, di valutazione e di rimessa in discussione dell’Io. In sostanza, ciò che nel liberalismo viene spesso indicato come presupposto di principio ‘valoriale’ rischia di non rivelarsi o di non sussistere integralmente nelle sue finalità empiriche: anzi, esso talvolta si impone attraverso una serie di ‘antitesi’ fortemente ‘parziali’, declinando pericolosamente verso la conservazione. Tale caratteristica crea l’esigenza di un ‘governo migliore’ del processo di rielaborazione empirica del liberalismo, al fine di riporlo, per così dire, nel proprio alveo dottrinale originario.