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28 Marzo 2024

Una politica di verità

di Vittorio Lussana
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Una politica di verità

Alla luce della clamorosa vicenda del senatore Luigi Lusi e in occasione del ventennale dell’inchiesta di Tangentopoli, che cade proprio in questi giorni, appare quanto mai opportuno proporre una serie di ragionamenti nel merito dei delicatissimi meccanismi giuridici che delimitano, o che dovrebbero delimitare, vicendevolmente, il potere politico e quello giudiziario. La concomitanza stessa di tali eventi potrebbe infatti risultare utile al fine di comprendere quali siano, da sempre, le superficialità, le mancate trasparenze e le viziate ritualità che impediscono, nel mondo politico, effettivi controlli su tutta una serie di operazioni finanziarie e di bilancio, oltre a rivendicare l’esigenza di una commissione parlamentare di inchiesta sui finanziamenti ai Partiti in grado di rivedere ‘a bocce ferme’ la stagione storica definita delle ‘Mani Pulite’. Lo spunto che intendo richiamare è quello del ricordo di una delle ultime conferenze stampa di Bettino Craxi, in cui il leader del Psi presentò pubblicamente un rendiconto finanziario firmato dall’allora tesoriere del Partito, Vincenzo Balzamo, il quale, essendo deceduto da pochi mesi, finì col giustificare agli occhi dell’opinione pubblica la successiva serie di avvisi di garanzia nei confronti dello stesso Craxi, sulla base dell’assunto: “Non poteva non sapere…”. Questa rimane una questione da riporre nel corretto contesto giuridico, per un rinnovamento autentico della classe politica italiana, la quale ha evidentemente bisogno di nuove regole, di nuovi comportamenti, di nuovi codici specifici di garanzia e di controllo. Da un’indagine di tal genere potrebbe persino risultare più chiaro che, in qualche caso, Craxi fosse effettivamente al corrente di alcuni finanziamenti che venivano percepiti dal Psi, che altri li immaginasse solamente, che in altre situazioni ancora abbia semplicemente dato per scontato che il sistema di autofinanziamento della politica fosse esattamente ‘quello’ da tempo immemorabile. Il ‘passo indietro’ che la politica ha dovuto compiere negli anni 1992 – ‘94 non è stato del tutto compreso sotto il profilo del rinnovamento necessario per il nostro Paese. Anche perché, rispetto al contesto storico in cui si sono verificate tutta una serie di operazioni illecite, nonché nel merito di fatti più recenti, Tangentopoli non solo si è rivelata una ‘falsa rivoluzione’, bensì è stata un vero e proprio fallimento. A molti è sempre convenuto - e conviene tutt’oggi - continuare a ‘spostare’ il problema della bassa qualità della nostra attuale classe dirigente su questioni ‘altre’ e su altri fatti, al fine di continuare abilmente a confondere le modalità con cui si autofinanziava - e si autofinanzia - il sistema politico italiano, anziché proporre un’idea quanto meno vaga quanto meno su una ‘cornice’ di nuove regole che si dovrebbero realizzare per cambiare radicalmente lo stato di queste cose. In gioco potrebbero entrare, per esempio, non soltanto le responsabilità storiche della nostra classe politica, ma anche quelle di un’imprenditoria italiana che, grazie alla politica, ha sempre fatto comodamente i suoi ‘affari’. Oppure, nel tentativo di comprendere cosa sia accaduto veramente nei primi anni ’90 del secolo scorso, cioè dopo l’abolizione tramite referendum del finanziamento pubblico ai Partiti, per quale motivo quella stessa consultazione popolare sia stata ipocritamente aggirata attraverso il meccanismo dei rimborsi elettorali o delle sovvenzioni a giornali, fondazioni e associazioni. Da troppi anni, Bettino Craxi viene pubblicamente chiamato in causa come principale responsabile di tutto un complesso di problemi politici gravi e profondissimi. Gli viene persino imputata l’esplosione del nostro gigantesco debito pubblico, nel più assoluto rifiuto a voler ricostruire i fatti in scienza e coscienza, secondo verità, al fine di ricollegare le effettive responsabilità - non solo quelle penali, ma anche quelle politiche – rinunciando alle approssimazioni giustizialiste o demagogiche. Eppure, ciò è proprio quanto dovremmo cominciare a fare: lo dobbiamo allo stesso Craxi, come uomo e come esponente politico di primo piano, poiché è tornato troppo comodo utilizzarlo in quanto principale ‘parafulmine’ di tutta una serie di questioni che, invece, erano assai più articolate e complesse all’interno degli ambienti politici italiani. La crescita della nostra spesa pubblica fu una scelta dettata dal tentativo di creare un sistema di welfare che assicurasse una globalizzazione verso l’alto della società italiana. Ma ciò era già stato stabilito sin dagli anni ’60 del secolo scorso. Il deficit dell’erario e i titoli del debito dello Stato, sino al 1981 venivano ‘coperti’ dalla Banca d’Italia, la quale era costretta a stampare nuova carta moneta proprio al fine di soccorrere il Tesoro, generando in questo modo un tasso d’inflazione spaventoso per il conseguente aumento della ‘velocità di circolazione’ della moneta. Il divorzio tra ministero del Tesoro e Banca d’Italia, deciso dal Governo Forlani nei primi anni ’80, fece nascere l’esigenza di dover contabilizzare il debito con maggior precisione. La qual cosa venne effettuata proprio dal Governo Craxi, attraverso un’apposita commissione parlamentare. Il sistema di welfare che possediamo oggi, dunque, è stato creato attraverso il debito. Ma noi non abbiamo le Usl, poi divenute Asl, dagli anni del Governo Craxi, bensì dalla riforma del sistema sanitario nazionale del 1979, il quale, in ogni caso, pose fine a tutta una ‘selva’ di mutue - tipo l’Inam - che già s’erano ‘mangiate’ un’iradiddio di danaro. La prima razionalizzazione della spesa e i primi tentativi di riassestare la gestione degli enti pubblici in base a una riorganizzazione di tipo manageriale fu proprio la politica economica scelta da Craxi. E chi la racconta in maniera diversa sbaglia, secondo modi ingiusti e atroci, da almeno venti anni. Io voglio personalmente un gran bene alla sinistra italiana: sono cresciuto in mezzo al suo popolo, che mi ha educato all’analisi e allo studio serio e approfondito dei problemi. Ma negli anni di Tangentopoli, ogni cosa degenerò improvvisamente in un corto circuito irrefrenabile di populismi eversivi e doppie verità, di indignazioni di comodo e opportunismi travestiti da giustizialismo. Lo stato sociale, assistenziale e ‘sprecone’ concepito qui da noi ha divorato risorse sin dai primissimi anni di vita della cosiddetta prima Repubblica, poiché il clientelismo e il notabilato democristiano lo imposero in quanto metodologia di mantenimento dello status quo rispetto all’egemonica capacità organizzativa, propagandistica, elettorale e financo culturale della sinistra italiana. La riforma sanitaria del 1979, tanto per tornare all’esempio proposto - che comunque rappresenta una delle ‘voragini’ finanziarie più profonde del nostro sistema di welfare - venne presto trasformata in una ‘greppia’ di posti e incarichi per politici locali, lottizzazioni, ruberie e malversazioni varie. Parlamenti e Governi hanno sempre largheggiato nel concedere pensioni non dovute, lesinando invece sui vitalizi per chi era avanti con gli anni o non aveva altre fonti di guadagno. Norme e regolamenti, a loro volta, hanno sempre concesso l’immaginabile e, spesso, anche l’inimmaginabile – pensioni ‘baby’, false invalidità, disabilità inventate - mentre pochissimo venne speso per risolvere il grave problema delle strutture, delle barriere architettoniche, dell’inefficienza dei servizi da fornire alla collettività. Tutto questo non può essere interamente ‘accollato’ al Partito socialista italiano nella sua fase ‘craxiana’: al contrario, sotto il profilo della concorrenzialità stessa, il Psi, rispetto agli altri Partiti, ha sempre denunciato carenze e lacune, svogliatezze e grossolanità. Fu invece la Dc a imporre, per ragioni storiche ed elettorali, il regime del ‘magna magna’, nel tentativo di accontentare tutti. Una metodologia a cui gli altri Partiti semplicemente si erano adeguati. Compresi i comunisti, nel loro tentativo, tutto sommato ingegnoso, di profilare uno sviluppo cooperativista e solidale in alcune regioni italiane. Insomma, il ‘clientelismo’ lo possiamo annoverare sotto le categorie che più ci piacciono o ci convincono: da quello ‘gramsciano’ del Pci, a quello disordinatamente anarchico del Psi; da quello intriso di ‘borghesia arcadica’ dei liberali a quello populista dei cattolico-democratici. Ma sempre di clientelismo si tratta. Tutto ciò al fine di carpire un comodo consenso che ha sempre costretto lo Stato a ricorrere all’emissione di buoni ordinari del Tesoro - o titoli analoghi - per racimolare denaro, impegnandosi a pagare tassi di interesse sul debito sempre più alti. L’incidenza degli interessi sui titoli pubblici è ciò che ha generato veramente il nostro deficit di bilancio, che finiva regolarmente fuori controllo. E anche quando si decise, in una fase successiva, di porre in essere una serie di regolamentazioni che garantissero minori sprechi e un maggior controllo della spesa corrente, attraverso gestioni che ne facilitassero la ‘trasparenza’ - mi riferisco a dibattiti risalenti alla fine degli anni ’80 - ci si è limitati a trovare nuovi escamotages, come ad esempio le consulenze esternalizzate o le società ‘multiservizi’, che hanno reiterato, con altre forme e con altri metodi, il medesimo meccanismo feudale, parassitario, assistenzialista. Poiché il vero grande problema del nostro Paese, soprattutto quando si propongono gli esempi di alcuni nostri grandi imprenditori o capitani d’industria, in realtà è quello di una grande imprenditoria sostanzialmente sovvenzionata: è facile fare i ‘capitani coraggiosi’ in questo modo, mentre l’imprenditoria medio-piccola è costretta a soffrire sotto il pesantissimo ‘tallone’ di relazioni e intrecci che, alla fin fine, non fanno altro che riproporre l’antico alibi culturale di uno Stato omnicomprensivo, pachidermico, totalmente inefficiente. Perché uno Stato spogliato dei propri mezzi e, in molti casi, persino delle proprie funzioni finisce per forza di cose col rivalersi sui più deboli, oppure a dover gestire l’esistente con fare sonnolento, dato che nel Mezzogiorno subisce la concorrenza persino delle mafie per ciò che concerne il semplice controllo del territorio. In ogni caso, non fu certo Bettino Craxi a inventarsi la formula della ‘spesa a pioggia’. Al contrario, Craxi ha cercato di individuare quelle riforme istituzionali necessarie per far uscire il Paese da una situazione di instabilità che portava sistematicamente a elezioni politiche anticipate, le quali a loro volta esasperavano la tendenza dei Partiti a dover conquistare nuovi consensi spendendo e ‘spandendo’, mentre Camera e Senato aggiravano allegramente la norma costituzionale che impone la copertura finanziaria a giustificazione di ogni genere di spesa. La ‘scena madre’ di questa recita ‘a soggetto’ è sempre stata l’approvazione, a fine anno, della legge di bilancio, la famosa Finanziaria, regolarmente stravolta da emendamenti ‘spenderecci’. Austerità, moralità, etica pubblica, ammonimenti sui pericoli incombenti, ritorno a una politica dei valori, di trasparenza e di verità hanno rappresentato sempre - e sottolineo sempre - una messa in scena stucchevolmente teatrale di moniti inutili, mere promesse da ‘marinaio’. La vera storia delle ruberie italiane a grandi linee è tutta qui: quella di una politica che ha sempre avuto molte cose da nascondere e che, oggi, non è soddisfatta del ‘tunnel’ in cui è finita, del disamore o del vero e proprio disprezzo con cui essa si sente giudicata dai cittadini. Tuttavia, è ormai giunto il momento di rendersi conto di dover pagare il prezzo per non aver seguito i consigli e per non aver scelto, nel passato più recente, una politica di verità. Perché ciò che contraddistingue la ricerca della verità può giungere a riscontri inaspettati, soprattutto allorquando la cultura complessiva di una società riesce ad affrancarsi dai pregiudizi decidendosi a modificare il sistema stesso delle proprie regole, al fine di voltare radicalmente pagina rispetto a un corporativismo ‘dissimulatorio’, superato dalla Storia. Anche sotto il profilo dell’indagine giuridica, affinché sia chi indaga, sia chi è indagato, nel nostro sistema giudiziario non sia più costretto a sofismi interpretativi tesi a manipolare, sempre e comunque, la realtà. Nell’ordinamento americano è prevista una cauzione per l’imputato in attesa di giudizio. Ciò garantisce che una persona indagata non debba scontare una pena ‘prima’ che venga emessa una sentenza, ma solamente dopo. Qui da noi, invece, avviene esattamente il contrario: prima si subiscono la ‘gogna’ mediatica e i provvedimenti restrittivi e, in un secondo momento, ci si ritrova facilmente scarcerati, spesso da colpevoli: un vero e proprio ‘regno dell’incontrario’. Il sistema italiano è falsamente garantista: questa è la verità che ci detta la condizione storica del nostro Paese. E questa è la vera motivazione politica di fondo per cui l’Italia rimane, per cultura e tradizione, un Paese giuridicamente inquisitorio e arretrato.


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
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