Il problema della mancanza di autocritica del mondo post comunista non deriva solamente dalla sua cronica ‘allergia’ verso il socialismo democratico e riformista di discendenza ‘turatiana’ e ‘craxiana’, bensì è addebitabile a un grave errore di mentalità che si tramanda da intere generazioni. Se prendiamo, per esempio, la primissima pubblicazione da parte di Einaudi delle ‘Lettere’ e poi dei ‘Quaderni dal carcere’ di Antonio Gramsci emergono una serie di limiti che da sempre distinguono la produzione culturale italo-marxista: nella revisione dei ‘Quaderni’, ad esempio, qua e là amputati con scarso senso filologico soprattutto nei suoi riferimenti a personaggi sepolti dalla riprovazione del movimento comunista internazionale come Lev Trockij, si delinea una precisa mentalità censoria, un amore tutto burocratico per le verità di ufficio, un’attrazione per le convenienze momentanee, tutte tendenze che aprono un grave ‘squarcio di verità’ intorno alla malattia da cui è sempre stato affetta la nostra cultura di sinistra. Non mi riferisco tanto alla ‘doppiezza’ di chi è stato costretto a professare una visione puramente strumentale della democrazia in attesa di un suo superamento rivoluzionario, bensì a un orripilante pedagogismo esasperato, a un’insopportabile ipocrisia prelatizia, a una confusionaria identificazione del Partito con la mano provvidenziale della Storia, alla pretesa di annullamento di ogni individualità e di sacrificio di ogni criticità sull’altare delle obbedienze gerarchiche, a un armamentario culturale tutto incentrato su abiure, rettifiche, compromessi, pentimenti, scomuniche, confessioni in pubblico. Si tratta di limiti dogmatici che derivano da un ceto dirigente educato all’ortodossia marxista-leninista, da una classe di professionisti della politica la quale, pur credendo sinceramente nella democrazia, si approccia a essa attraverso strumenti etici e concettuali buoni per rinsaldare una dittatura o per combattere una ‘guerra populista’, come se un sistema democratico, le sue procedure elettorali, i suoi problemi di ricambio generazionale o di semplice avvicendamento della classe dirigente possano essere tenuti a battesimo dal ‘centralismo democratico’.