Il cantautore siciliano ci manca molto: tutti lo rievocano appena possono, ricordando i suoi brani più famosi con molto affetto, anche da parte di chi lo apprezzava solo distrattamente
Uno strano fenomeno avviene in Italia: si viene apprezzati soprattutto quando non ci siamo più. In pratica, per veder riconosciuto il valore artistico o professionale di una persona, questa deve morire. Evidentemente, in vita si diventa un problema per molti, mentre da morti non si dà più fastidio a nessuno. Soprattutto, se si è un carattere inquieto o un artista 'scomodo'.
Franco Battiato, cantautore di Riposto (Ct), in Sicilia, classe 1945, rivelò fin da ragazzo il proprio carattere stravagante, come se la sua missione su questa Terra fosse quella di interrogarsi e interrogare sull’essenza e il senso della vita. “Voglio cercare un senso a questa vita anche se questa vita un senso non ce l’ha…”, per dirla con Vasco Rossi. Ebbene, la ricerca di senso attraversa tutta l’opera di Battiato, sin dai tempi de 'L’era del cinghiale bianco' fino a 'Torneremo ancora'. Questa, insieme alla meraviglia per la potenza dell’uomo e del cosmo, è il fulcro portante delle sue composizioni, accompagnate da crisi esistenziali prima, mistiche poi. Lo sentiamo così vicino alla dimensione umana da scorgere il lui un fratello di pensiero. Sì, perché lui fu anche un grande filosofo, che cercò di unire occidente e oriente, il cristianesimo, che non ha mai ripudiato - il rito funebre è stato cattolico - con le religioni orientali, in special modo quelle buddhista, induista e quella armena del grande mistico Gurdijeff. Amico di Manlio Sgalambro, suo consulente e filosofo erede di Arthur Schopenhauer, anch’egli siciliano, da cui lo divise solo la morte nel 2014, egli giunse a negare la realtà, di cui si può negare l’esistenza. Il che lo indusse a movimenti ascensionali alla ricerca di un “centro di gravità permanente”, che andrebbe trovato non tanto nel tempo degli uomini, che è orizzontale, ma in quello di Dio, che invece è verticale. Si tratta di quei movimenti in diagonale di cui tratta l’album 'I dieci stratagemmi', che fanno da orientamento nel “guazzabuglio dell’animo umano” che si confronta con questo mondo, sempre più veloce e caotico. Quest’ultimo è in mano ai potenti, verso cui Battiato espresse un’aspra critica in 'Povera Italia', per la spregiudicatezza e la corruzione dilaganti. Meglio, allora, rifuggire dalla politica, dalla quale fu peraltro espulso per le sue affermazioni stravaganti - ma vere - e rifugiarsi nella meditazione e nel misticismo. Battiato ha sempre rigettato il titolo di 'Maestro' con cui i fans erano soliti appellarlo, per il diniego di ricoprire una posizione superiore e il rifiuto di qualsiasi etichetta definitoria: esattamente come Sgalambro, che pur attingendo al pensiero di Schopenhauer e di Emil Cioran, nega di essere un 'nichilista', avendo in odio le definizioni. Ciò che rimane centrale nel suo pensiero e in quello di Sgalambro è la consapevolezza che la realtà sia avvolta nel velo di Maia. Il quale, una volto scoperto, rivela la vanità del tutto. Come dice la filosofia buddhista, siamo tutti "impermanenti", tutti impotenti, poiché intenti a cercare di diventare più potenti ricoprendoci di miti come il denaro, che nasconde la vera essenza dell’uomo da riportare su un piano superiore: nel tempo mistico del Buddha. Attenzione, però: ciò non pone nessuno su un piano di 'superiorità superomista'. Noi siamo solo dei "mortali alla ricerca di senso", ognuno in caccia della propria realizzazione, nella consapevolezza che il suo peregrinare può interrompersi in un attimo. Che si provenga da Dio o dal Nulla, non cambia la sostanza umana, perché siamo tutti malati, “tutti affetti dalla stessa malattia”, come scrisse Italo Svevo: la morte. Questa ricerca di senso, Battiato l’aveva rivelata già alle elementari, in un tema in cui si chiese: “Io chi sono”? Ce lo riferisce Aldo Nove nell’opera 'Franco Battiato' (Sperling & Kupfer), in quella che si può definire la sua miglior biografia. Rifiutando le definizioni non poteva certo che rispondere: “Io sono un musicista-cantautore ricco, perché questa è la veste esteriore”. Insomma, Franco Battiato era alla ricerca della sua essenza, come gli aveva mostrato il mistico armeno Gurijeff, ma anche l’induismo, mirando a una disidentificazione dai ruoli e a un annullamento dei pensieri razionali, per cercare l’Uno/Tutto che è Amore. Qui si colloca il brano forse più inarrivabile, 'La cura', in cui sostanzialmente si tratta il tema di un Amore che cura, che solleva dalle “ipocondrie” e dagli “sbalzi di umore” cui sono soggetti tutti gli uomini. L’essere speciale è sia chi cura, sia chi viene curato. Ma soprattutto lo era Franco Battiato: un 'musicista-compositore-filosofo-mistico' che "ci stupisce sempre con il suo stupore”, come scrive Aldo Nove. Ovvero, con la meraviglia che si prova ogni mattina al risveglio, come se si trattasse sempre di una vita nuova. La vita, infatti, si rinnova sempre nel suo perenne sperimentalismo, che conduce verso mondi sconosciuti. Questo è il lascito, anche morale, di Battiato, che ci sprona ad aver fede nella vita, certi che tutto “cambierà, certo che cambierà”. Perché, come dicevano i latini: “Fortuna adiuvat audaces”. E’ di audacia, Franco Battiato ne ha avuta da vendere. Più dei suoi stessi lavori discografici.