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Amunì, dal siciliano “Andiamo”, è un’esortazione e un incitamento a buttarsi nella vita. Una riflessione sulle consuetudini, sulle regole, sulle etichette e sulle ‘istruzioni’ necessarie per la convivenza sociale. Un’analisi che vuol far meditare sul concetto del ‘bene comune’ e di come, in realtà, questo concetto sia soltanto la maschera di imposizioni e di ‘doveri’ collettivi, camuffati dietro i panni dell’oggettivamente giusto. La comunità stabilisce regole prestabilite in merito alle decisioni, allo svolgimento della nostra esistenza e ci condiziona nei semplici piccoli gesti quotidiani. Fin da piccoli ci viene indicato come agire e come comportarci. Una società che incarna tutte le società: perché nessuna ha fatto i conti con la volontà del singolo. Nessuna ha mai preso in considerazione o contemplato la possibilità di scontrarsi con una visione differente delle cose. Eppure, da qualche parte, esiste quel singolo soggetto che non comprende le motivazioni di tutto questo: non comprende un mondo dove tutti si comportano in un determinato modo perché “così è”. Perché così è stabilito, così è imposto o così è giusto. Perché è universalmente riconosciuto ‘normale’ svegliarsi al mattino e ‘necessariamente’ lavarsi; andare al lavoro e far ritorno nella propria casa soltanto la sera, dalla propria famiglia. Così come festeggiare il Natale indossando l’abito buono e condividendo la ‘festa’ con altre persone ‘normali’, mantenendo in società un atteggiamento 'perbene' nel quale è necessario esprimersi in un italiano privo di dialettismi per non venir esclusi. Ma chi lo stabilisce che la ‘faccia corretta’ della medaglia sia quella che scandisce gli eventi in questo modo? E cosa succede se non si condivide questo pensiero o se non si ha il coraggio di buttarsi in questa vita? Si resta prigionieri. Schiavi di un’esistenza in bilico tra i ricordi del passato e l’impossibilità di un futuro. Si diventa immobili e fantasmi invisibili agli occhi di tutti. Questa, la soluzione offerta da uno spettacolo sospeso nel surreale. Dove i due bravi e giovani attori siciliani ci mostrano lo scorcio di vita dei protagonisti: un ragazzo e una ragazza che vivono chiusi in una stanza, divenuta ormai tutto il loro universo. Allo spettatore non è dato sapere chi siano i due giovani e perché si trovano in quella stanza. Sembrano essere lì da sempre, immersi nell’impalpabilità di un tempo irreale e avviluppati nell’impossibilità di sottrarsi ad azioni che si ripetono uguali tutti i giorni. Conducendo una ‘semi’ esistenza, continuamente oscillante tra il desiderio e la curiosità di uscire fuori, di andare alla conquista e alla scoperta del ‘vero’ mondo (stimolata dai ricordi) e la paura o la nausea di ciò che esiste al di là di quelle quattro pareti confortanti. La loro casa diviene pian piano e inevitabilmente fortezza e rifugio. Ma anche e soprattutto la terribile prigione del loro avvenire, che li lega e li incatena in un ‘essere’ e in un ‘dove’ senza tempo e senza spazio. Astratto.
Gruppo ‘80. Regia di Vincenzo Picone. Con Alessandro Aiello e Giuliana Di Stefano