Il gruppo ‘Mòtumus e Talìa’, scuola d’arte drammatica Puglia, porta in scena al Roma Fringe Festival una performance incentrata sul senso di crisi che domina le nostre esistenze. Anna Piscopo è autrice, regista e attrice dello spettacolo ‘La città di Nessuno’, ma si avvale della collaborazione di Roberta Rigano e Gioele Barone. E’ un ‘vomitare’ continuo di situazioni che si nutrono di un senso di oscurità. Non nausee, non angoscia, ma qualcosa che va oltre e che abbraccia la follìa nella verità più assoluta e dissacrante. L’attrice ci racconta incubi, disturbi, ossessioni, una profonda solitudine. Ed è la parola ‘crisi’, alternata alla parola ‘mangia’, a essere ripetuta in ‘loop’, per dare forma a quell’insistenza che s’infila nelle tempie e nell’anima. E si parla dei ‘vegani’ che muoiono di ‘cancro’, di una fame nervosa, che divora e non ha controllo, di una crisi che appartiene al nostro tempo, ma che non è intesa solo come condizione socio-economica, bensì come dimensione ‘intima’, che si spinge verso l’abisso, superando i limiti dell’ordinarietà. E allora non mancano i riferimenti ai disagi della società, al terrorismo e all’Isis, al razzismo, con l’odio e la violenza che mettono radice nell’uomo. Il movimento che rappresenta la condizione dell’umanità senza direzione viene portato in scena con passi di danza, ma questa scelta sembra poco efficace per la dinamicità dello spettacolo, che ne perde il ritmo. L’amore, i sentimenti, il rapporto con il corpo, la morte, vengono centrifugati e rimessi in discussione, a sottolineare come quei valori che ci hanno sempre insegnato, all’improvviso non esistono più: vita e morte si allineano diventando un ‘unicum’. In una sperimentazione interpretativa, in cui la dizione è carente poiché le inflessioni dialettali sono evidenti, la Piscopo ci porta in uno sviluppo narrativo che evoca confusione, contrasti, illogicità: una sorta di ‘crisi nella crisi’. A un certo punto, l’attrice parla della ‘lonza’, ma lo fa ancora una volta in modo provocatorio, riferendosi al sesso con il ‘felino dal pelo maculato’. E qui 'scatta' il collegamento con il canto I dell’Inferno di Dante, dove la ‘lonza’ è simbolo di peccato, di eccesso, assumendo un significato ‘demoniaco’. Anche il ‘mordere i polipi’ in scena, simbolo di ingordigia, avidità e ambiguità, si aggiunge a tutta una serie di espressioni oscure e anche un po’ ‘inquietanti’. Se l’amore è un “treno preso in pieno”, come l’attrice recita in una poesia, inserendo il ‘siccome che’ in quanto ‘licenza poetica’ da far passare con ‘manica larga’, questo nobile sentimento prende le forme di rapporti incestuosi o malati, come il desiderio di sodomizzare la propria madre, o ‘masturbarsi’ fino a ‘scopare il padre’. Difficile capire la funzionalità della proiezione del video della canzone di Gigi D’Alessio, se non quella di aggiungere caos al caos, infilando un po’ di tutto per rappresentare il grande ‘calderone’ della società odierna. Insomma, contenuti anche condivisibili, in qualche caso, ma resi attraverso modalità recitative volutamente estremizzate. E ritorna la fame, quel ‘mangiare tutto’ come in preda a una ‘tenia’ che provoca voracità. Il marciume dell’anima e del corpo riaffiorano pesantemente. E si continua a rigurgitare pensieri nevrotici, isterie che nascondono realtà spesso taciute e nascoste per rientrare nei canoni di un’umanità basata solo sulle apparenze. Sono continue ‘precipitazioni’ quelle proposte al pubblico, in attesa di trovare il coraggio per ricominciare e, finalmente, salvarsi. E’ un processo di ricerca interiore, ma non solo, in cui non esistono certezze. E allora si accorcia la distanza tra il passato e la contemporaneità nella figura di Ulisse, ovvero Nessuno, che incarna tutte le contraddizioni dell’animo umano. Purtroppo, l’impalcatura testuale viene resa secondo uno stile di recitazione ‘underground’ ormai superato dal tempo e alcune scelte di regia non convincono del tutto. Fuorviante.
FOTO A CURA DI: ANNALISA CIVITELLI