Un lavoro decisamente interessante, che presenta spunti e punti di vista sull’amore moderno, rivelandone inquietudini e complessità
All’inizio della rappresentazione, questo lavoro di Mauro Tiberi ci è apparso poco convincente. Lo stile recitativo sembra un romanesco vorticoso, troppo veloce, quasi ‘scivoloso’ o poco cadenzato. Poi, si comprende meglio che è proprio il personaggio a essere caratterizzato da alcune ossessioni, prigioniero dei fantasmi di un amore rimasto troppo a lungo tra le ‘pieghe’ dei suoi anni giovanili, se non addirittura infantili. Risolto l’argomento, non ci dovrebbe essere alcun motivo per mentire a se stessi, né per teorizzare storie che non cominciano mai, o che deragliano ben presto dal proprio percorso evolutivo e valoriale. L’idea, in fondo, è decisamente brillante: spiegare il processo di maturazione di un giovane uomo residente a Pomezia verso l’età adulta. Ma quel che colpisce, in questo lavoro, è che dovrebbe trattarsi di una maturazione rasserenante, che toglie di mezzo una questione che rischia, spesso, di diventare una sorta di ‘labirinto’: una vera e propria ‘trappola’, per molti giovani. Soprattutto, quelli più intelligenti e sensibili, dotati di interessi culturali effettivi. Un ‘momento-soglia’ significativo è l’incontro con Martina, una ragazza di Siena in compagnia della quale il protagonista consuma un tramezzino ‘tonno e noci’. Lui le propone di rivedersi, speranzoso di approfondire un rapporto con una giovane ‘ruspante’, semplice, di provincia. E, infatti, i due s’incontrano una seconda volta nella famosa piazza del Campo, nel pieno centro della città toscana. Ma lei si presenta con un altro. E a lui crolla il mondo addosso. A questo punto, Tiberi ha un sussulto: la ragazza interpreta i suoi interessi più sofisticati come un generico ‘superomismo nietzschiano’, provocando in Mauro una risposta – anzi, una domanda retorica - alquanto felice, oltreché corretta: “Martina, ma che cazzo dici”? Probabilmente, quella frase era l’unico frammento di filosofia che la ragazzina, provincialotta e campagnola, possedeva in quanto semplice battuta rubata ‘in giro’, o sentita chissà dove. E la delusione del ragazzo comincia a dirigersi verso lidi alquanto depressivi. L’attore ha ‘ingranato’ e sta cominciando a comunicare con il pubblico. Tuttavia, il suo presupposto rimane pessimista, oltreché dolorosamente infelice: il ragazzo non riesce mai a riprendersi dai propri insuccessi e si avviluppa inutilmente in tesi e ipotesi regolarmente smentite dai fatti. Ha un evidente problema di comunicazione: pur parlando molto e agitandosi, egli non riesce a far comprendere i suoi sentimenti più profondi. Si porta tutto ‘dentro’, senza comprendere che proprio quella ‘interiorità’ è la ‘sua’ verità. Insomma, questo ‘Tramezzino tautologico’ è un lavoro decisamente interessante, che presenta spunti e punti di vista sull’amore moderno rivelandone inquietudini e complessità. E infatti, il finale suggerisce una soluzione drastica, autodistruttiva, nichilista, anche se non c’è lo ‘sparo’ dell’arma da fuoco ritrovata in un cassetto a condurre lo spettatore nei pressi di una risposta catartica, verso il ‘coupe de théatre’. La cosa rimane sospoesa nel vago: la si può solo intuire, lasciando libero il pubblico di crearsi l’epilogo che preferisce. Una soluzione che, purtroppo, denuncia una condizione sociale di rapporti ormai svuotati e falsificati, profondamente inquinati da un materialismo pornografico che, oltre a essere banalmente statico, non conduce da nessuna parte. Comprendere di dover star bene con se stessi e di riuscire a individuare un proprio equilibrio personale dovrebbe rappresentare un qualcosa d’importante, per un ragazzo che vale qualcosa in più rispetto agli altri. Perché erano gli ‘altri’ il problema: erano le persone di cui il protagonista si era circondato a essere totalmente vuote, a non valere niente. Insomma, questo lavoro di Mauro Tiberi, realizzato con la supervisione artistica di Letizia Russo e Paolo Zuccari, noi lo giudichiamo apprezzabile, poiché ha saputo incuriosirci, anche se non ci ha condotti verso quell’affrancamento, quella ‘liberazione’ che, per lunghi tratti del monologo, avevamo auspicato. Intrigante.
NELLA FOTO: MAURO TIBERI