Nei preziosi spazi del teatro Stanze Segrete ha preso vita, sotto forma d’inchiesta, uno degli interrogativi che più attanagliano la riflessione estetica: è possibile un’impermeabilità totale dell’opera e del suo autore rispetto al contesto politico in cui viene fruita?
Quante volte la critica è stata chiamata in causa per individuare il possibile confine tra l’uomo e l’artista? Ennio Coltorti e Marco Mete, dall’interno del campo della produzione artistica, con questo ‘Wilhelm Furtwängler: processo all’arte’ di Ronald Harwood non hanno dato risposte, bensì arricchito la domanda di corollari. In scena al teatro trasteverino Stanze Segrete, ‘Processo all’arte’ è un riadattamento dell’originale inglese ‘Taking Sides’ (‘Prendere posizione’, ndr). L’intreccio prende corpo in una contingenza storica in cui persino la quantità di respiri compiuti in una giornata potevano esser letti come una precisa scelta politica. Stiamo parlando della pur comprensibile psicosi da ‘denazificazione’ che ha investito l'Europa dopo il secondo conflitto mondiale. Quella che è restituita dagli occhi di Marco Mete, nei panni del maggiore Arnold, è l’eccitazione tipica della ‘caccia alle streghe’. La presenza scenica è analizzabile al microscopio, nello spazio angusto in cui si consuma l’indagine sul maestro Wilhelm Furtwängler. Il cast, diretto da Ennio Coltorti nei panni dell’immortale direttore d’orchestra, risulta sottoposto a uno sforzo sovrumano, al fine di mantenere la tensione a fior di pelle. La minima increspatura fuori luogo, allo ‘Stanze Segrete’ diventerebbe una sbavatura inaccettabile. Il rischio di scivolare nell’intimismo è preservato dalla 'quarta parete', che nonostante le distanze inesistenti, è rimasta più solida che mai. Come nei migliori film d’inchiesta, si entra a 'gamba tesa' nella vicenda con una sceneggiatura che dà tutto il tempo al pubblico di assimilare ogni dettaglio dell’indagine, per collocarlo al posto giusto. Nella storia c’è tutto: ironia e malinconia, tristezza e frustrazione. Con ‘Processo all’arte’, dopo ‘Buscetta: santo o boss?’ e ‘Il sogno di Nietzsche’, l'ottimo Ennio Coltorti entra di nuovo nelle pieghe dell’animo umano scontrandosi con ideali, ambizioni, capacità, sentimenti. Insomma, elementi specificamente biografici, che cozzano, inevitabilmente, con la Storia. La varietà delle tonalità emotive rese dalla rigida e coscienziosa segretaria, Emmi Straube, l’impetuoso sergente, David Willis, il mediocre e subdolo secondo violino, Rode e l’appassionata vedova Tamara si distribuiscono nelle scarse volumetrie del teatro, rendendo l’aria densa e pesante. La questione etica emerge durante la performance, andando oltre la mera depoliticizzazione dell’arte, per approdare nell’insopprimibile umanità del genio. Quanto è più onerosa la responsabilità delle proprie scelte, rispetto a una delle tante anonime teste che nutrono la fama? Quanto il pubblico è esigente con gli eroi? Le questioni sollevate da ‘Processo all’arte’ potevano sembrare eccessivamente retoriche, se non vivessimo un momento storico in cui una parte vergognosamente ampia della società civile non si fosse trincerata nel ‘negazionismo’. Il caso del maestro, Wilhelm Furtwängler, restituisce in tutta la sua potenza l’apparente inutilità di una presunta azione buona, nel mare di odio prodotto dalla banalità del male. E con questo senso di scoramento, lo spettacolo si spegne sulle note della V sinfonia di Beethoven.
QUI SOPRA: ENNIO COLTORTI IN UNO 'SCATTO' DI TOMMASO LE PERA
AL CENTRO: IL MAESTRO IN SCENA CON FEDERICO BOCCANERA E VIRNA ZORNAN
IN ALTO A DESTRA: LA LOCANDINA DELLO SPETTACOLO