A più di 40 anni dalla morte del grande Luciano Bianciardi, la magnifica ‘penna’ della ‘lucida rabbia’, al teatro ‘T’ di Roma è stato messo in scena uno dei capolavori del ‘grande ribelle’ del giornalismo italiano, colui che anticipò la contestazione della fine degli anni ’60 indicandoci per primo le doppiezze e le contraddizioni di un ‘boom’ economico troppo accelerato, che ha prodotto soprattutto alienazione, solitudine, doppiezze e falsità
Marco Maltauro incontra la drammaturgia di Luciano Bianciardi, mettendo in scena vizi e abitudini degli italiani di un tempo. Siamo nell’Italietta del 'boom' economico, quando in televisione esordiva Pippo Baudo e, tra gli autori, Umberto Eco cominciava a interessarsi all'influenza dei media nella cultura di massa. Marco Maltauro, al teatro ‘T’ di Roma, ha dunque proposto ‘La solita zuppa’ partendo dal testo di Luciano Bianciardi, giornalista, sceneggiatore e critico televisivo che animò la vita culturale italiana del secondo dopoguerra, quasi dimenticato e ai più sconosciuto, forse perché la sua 'penna', nonostante fosse incisiva, non produsse moltissimo come autore. A più di quarant’anni dalla sua morte, Maltauro compie un’azione di recupero del testo, ripercorrendo un’opera narrativa carica di ribellione, attraverso una minuziosa analisi dei costumi sociali dell’epoca, dove alla rappresentazione teatrale si uniscono perfettamente passi interessanti di pura sociologia. ‘La solita zuppa’ è un racconto del 1965 e riportarlo ai giorni nostri in forma teatrale significa prendere consapevolezza di un periodo che non è poi così lontano da noi, ma che alla fine mostra come alcuni contesti non ci appartengano più. L’adattamento del regista evidenzia un’attualizzazione del contenuto, senza abbandonare le caratteristiche che lo hanno distinto allora. Siamo di fronte a una performance narrativa non semplice. Al centro del palco, tre attrici e un attore: Paola Aguzzi, Palmira De Angelis, Valentina Gregorini, Franca Iannaccone e Rosario Altavilla. I ruoli maschili e femminili si amalgamano e si alternano: lui interpreta lei, loro interpretano lui. E’ un incastro che disorienta, ma fino a un certo punto, perché si comprende l’intenzione di non assegnare generi. Rosario Altavilla, in particolare, si distingue perché riesce a farci intuire subito la sottile ironia del personaggio, che vive in bilico nel ruolo di impiegato solitario che si nutre delle poche certezze che ha: una di queste è preparare costantemente il semolino. Appare forte il richiamo alla leggenda della ‘Mano di Fatima’, simbolo di pazienza, autocontrollo e temperanza. La leggenda narra che una sera, mentre Fatima stava cucinando la cena per l'amato, lo vide tornare a casa con una concubina. Addolorata e sconvolta dall'arrivo di questa donna, non si accorse di aver lasciato cadere il cucchiaio con cui stava mescolando il semolino nell'acqua bollente, ustionandosi, ma senza percepire dolore. Alla fine accettò la scelta del marito. Questo ci riconduce a riferimenti precisi del testo, in cui il protagonista acconsente ai comportamenti della moglie e dei colleghi: in un certo senso, si lascia vivere. Siamo nel periodo dei primi bisogni di maggior libertà sessuale, in cui pullulano tradimenti e ‘scappatelle’ con le prostitute come una pentola che ormai ‘bolle’ sul fuoco e che, ben presto, finirà col rovesciarne il ‘coperchio repressivo’. E ci sta tutto anche l’accostamento del sesso al cibo, che s’interseca fino a un’inversione e a una corrispondenza: la monogamia è culinaria. E il sesso promiscuo, in realtà è la normalità. Vestaglie e pantofole, tendenzialmente rosse, rappresentano quell’agognata pace riscontrabile solo nel privato del focolare domestico. E qui emergono i tabù, sbeffeggiando il costume. L’ironia è dosata, mai esasperata, al fine di andare contro le convenzioni educative dell’epoca, che facevano intendere come la masturbazione potesse essere causa di cecità. L’attualità di un testo del 1965 sta proprio negli atteggiamenti, nelle azioni delle persone. E’ vero che siamo già nel terzo millennio, nell’epoca dei tablet e dei social, ma i tabù esistono eccome. E così si entra nel vivo di una realtà che nasconde limiti e scarsa conoscenza, dove non si vuole ammettere che siamo ancora rinchiusi in un regresso psicologico, orgoglio della psicoanalisi 'freudiana'.
NELLA FOTO: IL GIORNALISTA LUCIANO BIANCIARDI
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