La regia e l'interpretazione di Luigi Morra conduce la ricerca teatrale su diversi piani stilistici, da quello recitativo a quello musicale, al fine di tratteggiare una realtà dalle tinte 'rissose' e comiche allo stesso tempo
Una voce maschile pre-registrata, in dialetto napoletano, risuona nella spoglia caverna/bunker del teatro di Documenti del Testaccio in Roma, accompagnando in loop il 'corteo' degli spettatori, accolti da tre brutti 'ceffi' che con sguardo circospetto li pongono immediatamente in uno stato di allerta. Il 12 e 13 aprile scorsi, la proposta di TVATT, acronimo di Teorie Violente Aprioristiche Temporali e Territoriali, è stata quella di un esperimento performativo interattivo e coinvolgente, che si è posto l'obiettivo di rappresentare il linguaggio della violenza in modo originale e anticonformista rispetto agli schemi teatrali tradizionali.'Ti picchio' o 'ti batto' è la traduzione di un modo di dire, Tvatt, in una certa parte dell'Italia meridionale. Ma è anche l'unico approccio possibile per sopravvivere in certi ambienti ai margini delle città. I tre interpreti assumono un atteggiamento di sfida e di provocazione nei confronti dello spettatore, sollecitato a sostenere un continuo susseguirsi di sguardi minacciosi. Fin dal primo istante, l'arroganza dei ragazzi mette a disagio il pubblico, che invece di essere un ospite spesso assuefatto e rispettato, diviene il bersaglio prescelto su cui indirizzare iperboli e immagini a forte impatto emotivo. Due sgabelli e un microfono con loop station sono gli unici oggetti scenici, a sostegno di una recitazione molto fisica, giuocata sulla tensione psicologica tra attori e spettatori, quest'ultimi coinvolti a simulare scene di risse e aggressioni. Da interpreti di una realtà violenta, gli attori si presentano nel ruolo di registi di azioni, parole e sensazioni da far provare direttamente allo spettatore, che alterna dolore, compassione, ira, divertimento e inadeguatezza. Dalla libera ispirazione di 'East-West' di Steven Berkoff, il pubblico viene davvero 'preso di petto' dalla narrazione ed è costretto a partecipare attivamente alle tensioni di scena. E, senza capire dove si vuole arrivare, si ritrova a inscenare sul palco il fac-simile di una lotta greco-romana. A mezza strada tra il ridicolo e il protagonismo esasperato, l'intrattenimento è in realtà assimilabile all'atmosfera degli spettacoli di ‘Kabarett’, in particolare allo straniamento delle opere di Bertolt Brecht. Il monologo del 'Naso rotto' di Pasquale Passaretti ha la forza di una certa comicità napoletana, in equilibrio tra ironia e delicata malinconìa, più vicina a Massimo Troisi che ai comici del cinema italiano attuale. Il racconto di una rissa nel giorno della festa del paese è lo spunto per una più ampia riflessione, che aiuta ad approfondire la compresenza nell'animo umano di due stati d'animo apparentemente opposti: da un lato, una distaccata derisione; dall'altro. una spinta solidaristica verso il personaggio di Pasquale, paladino di una diversità a tutti i costi. La rivalsa della dimensione infantile è una condizione naturale per l'essere umano. E, in questo caso, il pubblico non può fare a meno di identificarsi nel protagonista, nella sua esigenza di ricorrere alla violenza, anche se continua a ripetere a se stesso una falsa verità: “Ci ho provato, credetemi”.
”Per questo ce l'ho storto” è la battuta finale di un monologo in cui l'autoironia sul naso rotto è il medium attraverso il quale si riporta lo spettatore con i piedi per terra e si rende l'invenzione scenica più verosimile. La violenza così disperata non è più un qualcosa di lontano da chi osserva, ma si trasforma in un riso liberatorio dall'incombenza della perfezione, giustificando in qualche maniera la regressione culturale degli emarginati. Le incursioni degli altri attori interrompono in continuazione il racconto di fiabe di Pasquale, a rallentare quel flusso di immedesimazione che Brecht individua nell'assenza di spirito critico, generando quell'effetto di 'presa di distanza' dell'interprete e del pubblico dal personaggio in scena. Dalla potenza iniziale, il ritmo si rallenta progressivamente nella seconda parte, nella quale i tanti ‘fermo-immagine’ e alcuni brevi ‘scheck’ comici depistano il parterre dal focus principale: la violenza. La drammaticità degli eventi si spezza definitivamente con la proiezione di un filmato in cui Luigi, con indosso una giacca e degli occhiali da sole, racconta la genesi del gruppo sulla falsariga delle serie web e tv de 'La banda della Magliana’ o di ‘Gomorra’. L'introduzione del video serve ad abbattere definitivamente la quarta parete: i tre amici sembrano dei ‘bambini cresciuti’ che giocano più a fare i 'guappi di quartiere' che gli spietati camorristi delle cronache nazionali. Durante lo spettacolo, si ride con facilità e, contemporaneamente, ‘del’ e ‘con’ il personaggio, in quanto la distanza fisica ed emotiva tra attore e spettatore è azzerata in favore del trasformismo e della 'falsa' improvvisazione nella recitazione. Il 'potere' degli interpreti è giustificato in tutto: a loro è permesso raccontare anche 'fiabe senza morale', con una violenza nei dettagli tale da assumere il ruolo dei 'signori del riso e del pianto', come li definisce Molinari. La rottura delle convenzioni investe anche l'utilizzo del linguaggio modulato su registri di contrapposizione, dalla voce d'ingresso fino alla performance finale in cui l'attore, Edoardo Ricciardelli, coperto da una maschera, conquista lo spazio al centro della scena. La vita di quartiere appare, dunque, grottesca nella narrazione che ne fanno i movimenti di un 'Pulcinella desnudo', mentre fuori campo Luigi interrompe a intervalli la performance per commentare le azioni dell'attore, che si blocca nel movimento descritto come in una moviola calcistica dei programmi televisivi sportivi. L'arte del picchiare genera la 'risata verde' di Luttazzi: lo spettatore si arrende al riso per esprimere la propria impotenza davanti a un evento cruento e drammatico che lo coinvolge. L'accumulazione dei racconti e delle personalità, alla fine travolge il pubblico in una solitudine che invade il ‘non luogo’ delle anime.
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