Quante volte ci è capitato di dire che siamo di fronte al "nulla di nuovo", come se la ripetizione di certi modelli, comportamenti e azioni fosse qualcosa di inevitabile? Penso molte volte, e a volte persino troppe. Eppure, dietro questa ripetizione vi sono profonde occasione di ragionamento, possibilità di valutazioni sull'andamento del pensiero umano secondo una visione molto più ampia del solito.
In altre parole, potrebbe essere utile ragionare sul perché di queste ripetizioni, siano esse comportamentali che di pensiero, che accompagnano la storia del mondo umano e ci fanno a volte sostenere che tutto sembra al punto di partenza.
Per esempio, ed è quello che vorrei fare in questo breve articolo, potrebbe essere interessante proporre una visione secondo cui invece di trovarci a un identico punto di partenza che si ripete inesorabilmente, potremmo pensare di essere a un punto di arrivo finale, che, in quanto tale, si ripete con altrettanta frequenza.
Proviamo a pensare che la nostra umanità, in questa ripetizione secolare di alcuni atteggiamenti, sia come arrivata al capolinea di un percorso e vediamo se c’è il modo di concepire il futuro come un effettivo punto di partenza. In altre parole, mi sto chiedendo se è vero che siamo effettivamente partiti, ossia evoluti, rispetto a quel punto di partenza tanto caro agli antropologi darwinisti e che si usa definire selezione del più adatto, del migliore esemplare umano in grado di modellare i propri comportamenti in base all'ambiente.
Al di là del fatto che il concetto darwiniano cui mi riferisco è applicato al genoma, ossia alle modificazioni della struttura genica del nostro organismo, recuperando alcuni aspetti interessanti della teoria spenceriana dell'adattamento comportamentale e sociale all'ambiente, possiamo analizzare l'idea che si debba continuare a ripetere che l'adattamento sia qualche cosa di positivo e di vincente.
In sostanza, io vorrei dire che ho tutta l'intenzione, giunti a questo punto della storia umana, di non essere come sono e sempre forte perché mi adatto all'ambiente, ma vorrei essere un disadattato consapevole e per questo persino felice. E per poterlo essere con una buone dose di autostima, vorrei persino dire che l'umanità, allo stato attuale in cui si trova, ha terminato la sua corsa, a meno che non accada qualche cosa di veramente inaspettato.
Sarebbe forse necessario condurre un’analisi di tipo antropologico su quegli atteggiamenti che abbiamo abbandonato troppo presto perché con troppa facilità li abbiamo giudicati antichi, obsoleti e dunque inutili. Da questo punto di vista, uno strumento evolutivo che abbiamo quasi praticamente abbandonato è la "sensibilità che scaturisce dalla difficoltà condivisa concretamente", sostituendola con la "comunicazione di una sensibilità mediata dalla tecnologia della comunicazione".
Facciamo alcuni esempi per meglio chiarire il concetto.
Prima dell'avvento della cosiddetta "neotelevisione", o televisione delle emozioni (di qualsiasi tipo e a qualsiasi prezzo…), durante il periodo della "paleotelevisione", ossia quella che informava, forniva la visione dei fatti rispetto a un avvenimento, gli individui si trovavano a dover parlare tra loro, magari in una piazza di paese o in una bottega di una metropoli, del fatto raccontato. Oggi, con una televisione che deve sostanzialmente emozionare senza necessariamente informare, l'elaborazione delle proprie emozioni di fronte al fatto raccontato avviene nella propria solitudine, in silenzio. Si giunge alle proprie conclusioni da soli, perché si è soli di fronte alla notizie, oppure di fronte ad un tablet o iphone. Quello che comunichiamo agli altri è già la sintesi delle nostre emozioni, non l'emozione vissuta assieme agli altri mentre la si prova. Aver dunque abbandonato troppo presto la condivisione in piazza, al bar, oppure persino in famiglia, la condivisione delle emozioni ci ha allontanato dai legami con gli altri. Sono infatti solo le emozioni che ci uniscono alle altre persone, e come ci uniscono, se utilizzate nella loro versione negativa, ci possono dividere, allontanare gli uni dagli altri.
Ecco, secondo me, abbiamo abbandonato troppo presto lo sviluppo di una mente relazionale che sapeva vivere nei microcosmi dei paesi, dei piccoli gruppi di persone, nei quartieri delle città. Questa esasperata utilizzazione di una comunicazione mediata dalla registrazione vocale, filmica, oppure digitale, allontana la mente dall'idea che stando assieme in carne e ossa ad altre persone, si possono costruire e provare emozioni. Vi è una differenza abissale fra l'ascolto di una musica che ci piace da soli, oppure in compagnia, oppure ancora con la persona amata. A volte è necessario stare soli, ma la solitudine si apprezza solo dopo aver sperimentato la compagnia. Risulta invece molto più difficile ritornare in compagnia quando si cresce troppo spesso e troppo presto nella convinzione che sia preferibile vivere emozioni da soli.
Ecco perché dovremmo, secondo me, partire dal passato, ripetendo atteggiamenti di cui ancora la nostra mente ha necessità, come la compartecipazione emozionale, cominciando a limitare quelle applicazioni telematiche o quegli strumenti che ci emozionano con la mediazione di un video.
Personalmente sono un convinto utilizzatore di tutti i mezzi di comunicazione possibile, ma un altrettanto convinto sostenitore della ricerca di una giusta misura. E si tratta di una ricerca assai difficile, molto spesso insegnata dalla storia che ci ha preceduto, e certamene non dal futuro che si vuole anticipare.
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