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L’utilizzo della medicina narrativa in ambito clinico è una pratica che si sta diffondendo in molte Asl del nostro Paese. Parlare di sé serve ai malati a curarsi e farsi curare meglio. Ma serve anche a favorire l’aderenza al trattamento, migliorare il funzionamento dell’intero team di cura e prevenire il rischio di burnout (l’esito patologico di un processo stressogeno) degli operatori sanitari
L’incontro tra storie e medicina è il punto di partenza della Narrative Based Medicine (NBM, medicina basata sulle narrazioni), così denominata per distinguerla, ma anche per avvicinarla, al paradigma dominante della Evidence Based Medicine (EBM, medicina basata sull’evidenza). La piccola e grande innovazione della medicina narrativa sta nel valore che dà non solo al concetto di “disease”, ovvero la malattia intesa in senso biomedico, ma anche al concetto di “illness”, cioè al vissuto, all’esperienza soggettiva della singola storia di malattia e cura che vive la persona. La lingua italiana non suggerisce questa distinzione, perché la “malattia” è malattia, ma non è diagnosi e anche “vissuto”. La medicina narrativa, invece, parte dal presupposto che la storia della malattia e della sua cura non può prescindere dall’ascolto e dal racconto del vissuto di ogni singola persona. L’attenzione all’ascolto determina una diagnosi più approfondita, con un approccio alla cura che parte dall’individuo, dalla sua voce, dalla sua personale visione della vita. E mettere in relazione il paziente con tutto il tessuto medico, familiare, sociale, vuol dire migliorare la strategia curativa e la qualità della vita. Significa cioè, mettere in moto un meccanismo che tende a una sanità meno costosa con al centro la persona. Tale pratica, ideata negli Usa alla fine degli anni ‘90, oggi si sta diffondendo come strumento utile o “terapeutico” in molti campi della medicina. Un nuovo paradigma, che si basa sull’ascolto e la centralità della persona per effettuare diagnosi corrette e più veloci. Una sorta di alleanza terapeutica, che consente una verifica costante della salute del paziente e dell’aderenza alla terapia. Dal punto di vista del malato, fino a ieri lasciato a se stesso con le proprie paure, si tratta di una vera rivoluzione. Soprattutto per i pazienti colpiti da una malattia rara o invalidante, che sono costretti a peregrinare da un medico all’altro per capire di che cosa soffrono. Questi malati, una volta ottenuta la diagnosi, devono non solo affrontare il trauma di una malattia quasi sempre incurabile, ma anche sottoporsi a continui controlli periodici, visite ed esami. Invece, con la medicina narrativa, la cartella clinica viene integrata con i racconti del paziente e dei suoi familiari. Perché un ascolto attivo del vissuto di chi si trova ad affrontare una grave malattia non è solo fondamentale per ridare dignità al malato e migliorare il rapporto medico-paziente, ma – se utilizzato nella pratica clinica – può diventare uno strumento essenziale nel percorso diagnostico-terapeutico e consentire, al tempo stesso, una migliore gestione delle risorse sanitarie. Secondo Maurizio Dal Maso, direttore sanitario della Asl 1 di Massa e Carrara: “Parlare con i pazienti, ascoltarli, sapere ciò che pensano, ciò che sentono aiuta a migliorare la pratica sanitaria e, contemporaneamente, riduce drasticamente le pratiche inutili. Dalle esperienze pratiche svolte fino a oggi emerge infatti che grazie alla medicina basata sulla narrazione si possono evitare pratiche inutili e duplicati di esami e terapie. Si calcolano circa 13 miliardi l’anno di sprechi per esami e terapie svolti più volte. Ed eliminarli ottimizzando i servizi significa risparmiare più o meno il valore di una manovra finanziaria, migliorando contemporaneamente i risultati sulle cure e i loro esiti per i pazienti, che vengono anche aiutati a convivere con la loro malattia. Serve adesso passare dalle parole ai fatti, trasformando le esperienze pratiche realizzate in un sistema coordinato, rivedendo le regole del gioco”. Il dato è confermato anche dal Sos Educazione alla salute dell’Asl di Firenze, la prima in Italia a lavorare in modo strutturato sulla medicina narrativa mirata all’alleanza terapeutica. Una prassi che si è consolidata in poco tempo e da cui è poi nato il progetto Name (Narrative based medicine) che ha coinvolto i reparti che si occupavano di pazienti oncologici, cardiopatici, con malattia di Alzheimer e quelli di terapia intensiva. In questo modo, la medicina narrativa è diventata una realtà integrata in molte strutture sanitarie, con la nascita di un laboratorio dedicato e di altre iniziative, come un decalogo dei rispettivi doveri del medico e del paziente. E mentre la medicina narrativa esce dal limbo dell’appendice psicologica “umanizzante” per entrare a pieno titolo nella pratica clinica e dei servizi sanitari come componente essenziale del percorso diagnostico-terapeutico, le tante storie dei pazienti diventano libri che divulgano ‘conoscenza’ sugli effetti che alcune malattie hanno sulla vita dell’individuo e del nucleo familiare che lo sostiene. Così, la condivisione del disagio, del dolore e della paura diventano conoscenza e affermazione della dignità dell’essere. Come nasce La medicina narrativa (in inglese Narrative Based Medicine, la cui traduzione letterale è ‘medicina basata sulle narrazioni’) è un metodo anglosassone, nato tra gli anni ‘90 e l’inizio degli anni 2000 a seguito di numerosi studi sulle narrazioni nel campo delle relazioni di cura. E si concentra sul ruolo terapeutico e relazionale del racconto dell’esperienza di malattia da parte del paziente, oltre che nella condivisione della stessa con il medico. La prima a parlarne è stata Rita Charon, descrivendo e documentando estensivamente l’importanza della letteratura nella pratica medica, così come della relazione tra medico e paziente e dell’empatia nella pratica medica. Formatasi inizialmente come medico internista, la Charon ha intuito dopo pochi anni di pratica che, in quanto medico, il compito che le veniva richiesto era quello di ascoltare attentamente e premurosamente le straordinarie e complicate narrazioni dei suoi pazienti - fatte di parole, gesti, silenzi, immagini e analisi mediche – e di mettere in relazione tutte queste storie, dando loro un senso sufficiente, qualunque esso fosse, per poter passare all’azione. Con questa consapevolezza, nel 1999 decide di intraprendere un dottorato di ricerca in letteratura inglese alla Columbia University, focalizzando i suoi studi sul ruolo della letteratura in ambito medico. L’esperienza, estremamente positiva, la aiuta a capire i meccanismi con cui le storie dei suoi pazienti erano costruite, raccontate e percepite. Riportando su carta i racconti dei propri pazienti e confrontando quanto scritto direttamente con loro, incomincia a integrare tale metodologia nel rapporto medico paziente. Sempre più convinta dell’utilità della narrazione, Charon coinvolge anche i suoi colleghi e i suoi studenti di medicina, invitandoli a scrivere una cartella clinica parallela dei loro pazienti descrivendone emozioni, paure e stati d’animo. La medicina narrativa di Rita Charon offre una serie di strumenti e di ‘quadri concettuali’ provenienti per lo più da studi di letteratura, che aiutano il personale medico a rapportarsi in un modo diverso, più profondo, nei confronti dei pazienti. Con questo obiettivo in mente, cioè con l’idea di formare figure professionali capaci di ascoltare e capire le narrazioni dei pazienti, Charon inaugura il primo programma universitario di medicina narrativa nel 2000, offrendo workshop, seminari e spazi di confronto sulla nuova materia. Nel 2009 inaugurerà anche il primo Master al mondo in medicina narrativa, sempre alla Columbia University. Oggi, Rita Charon prosegue nella sua attività di insegnamento e ricerca. Il suo lavoro è stato riconosciuto dalle principali associazioni mediche americane, tra cui l’Association of American Medical Colleges, l’American College of Physicians, l’American Academy on Communication in Healthcare e la Society of General Internal Medicine.