Intervista al geniale coreografo israeliano reduce dal grande successo planetario del suo capolavoro, ‘Grand Finale’, andato in scena sui palcoscenici di tutto il mondo
Prosegue il lungo tour dell’ultimo straordinario lavoro del coreografo di fama internazionale, Hofesh Shechter, intitolato ‘Grand finale’, andato in scena sui palcoscenici di tutto il mondo. Uno stupefacente esercizio espressivo, a metà strada tra danza, live concert e teatro. Dopo aver salutato l’Italia con la sua applauditissima apparizione a ‘Romaeuropa’, la ‘Schetcher’s boundary breaking dance company’ - fondata nel 2008 a Brighton dall’omonimo danzatore israeliano – ha raggiunto il ‘Bluma Appel Theatre’ di Toronto ed è rientrata in Europa alla volta del Forum di Monaco, passando per l’Adelaide Festival of Arts in Australia. L'abbiamo ritrovata il 19 maggio scorso all’International May Festival di Wiesbaden, in Germania, di ritorno dal ‘Brighton Festival’ britannico. Una tournée che ha attraversato i palchi più prestigiosi di Europa, America e Oceania, riscuotendo sempre un notevole successo. Comico, cupo e illuminante allo stesso tempo, ‘Grand Finale’ evoca un mondo in pieno contrasto con sé stesso, colmo di un’anarchica energia e di violenta commedia. Da questo spirito irrefrenabile e incontenibile, Shechter crea la visione di un mondo in caduta libera, sostenuto dal lavoro di un eccezionale gruppo di 11 ballerini provenienti da 9 Paesi differenti e da un’orchestra di musicisti dal vivo che suona melodie senza tempo. Non ci stupiscono, dunque, le ben due ‘nomination’ ricevute nel corso del 2018: quella per la Miglior produzione della nuova danza del celebre ‘Oliver Awards’ e per la Miglior Outstanding Performance del ‘Bessies Awards’. Un ballo ai confini del mondo, che attraversa nevroticamente ogni luogo e riesce mirabilmente a tradurre in immagini visive quei pensieri così oscuri, legati alla fine, che da sempre abitano la nostra mente e che soltanto un mezzo espressivo potente come la danza può realizzare. Ecco qui di seguito l’intervista che questo bravissimo artista israeliano ci ha cortesemente rilasciato a margine di una delle sue magiche performance.
Hofesh Schechter, come descriverebbe ‘Grand Finale’ in tre parole?
“Pareti desolate della morte”.
Il titolo dello spettacolo suggerisce qualcosa di sorprendente, elegante e straordinario, ma inevitabilmente richiama alla mente l’idea della morte, anche se lei ha scelto di affrontare una materia tanto oscura in maniera ottimistica, a tratti quasi ironica: è questo il vero senso del titolo ‘Grand Finale’?
“È un titolo che proviene dalla tradizione del balletto e dell’opera, in cui vi è anche una componente sarcastica. Esso sottende qualcosa di oscuro per la natura dell’oggetto che tratta, strettamente connesso all’idea della fine, della morte e di quell’apocalittica energia con la quale l’uomo cerca di affrontare tutto questo. Mi interessa molto osservare le diverse prospettive con cui gli esseri umani concepiscono la nostra realtà, totalmente immersa nel caos. Il titolo può essere divertente, da un certo punto di vista, ma triste dall’altro. Tuttavia, trovo che vi sia qualcosa di grandioso nel pensiero della fine, nonostante la direzione in cui il mondo sta andando sia tutt’altro che positiva e felice”.
In che modo il pensiero della fine e la necessità di farsi testimonianza e memoria collettiva si inseriscono nella sua arte?
“Credo che la mia forma d’arte, per sua costitutiva natura, sia un qualcosa di aleatorio: per il fatto di accadere in un dato spazio-tempo irripetibile, la danza esaurisce la sua esistenza nell’accadere, senza poter essere registrata in modo indelebile nella memoria. Questa è la cosa splendida di arti come la danza. Ciò che conta, nel mio fare arte, non è il pensiero di essere ricordato, bensì di rendere possibile la sua continuità con il presente. La danza è l’arte del presente: danziamo la potenza della prossimità e apriamo le porte a un rito cerimoniale, in cui ognuno siede accanto all’altro condividendo qualcosa di unico e irripetibile. Ed è straordinario che riusciamo a farlo, anche a distanza di migliaia di anni. La cosa più importante è cercare di far sì che tutto ciò vada avanti e che altre persone, dopo di me, continuino a fare lo stesso”.
Non capita spesso che un autore sia coreografo e compositore di musiche allo stesso tempo: come ha costruito l’intera drammaturgia di ‘Grand Finale’ riuscendo a far compenetrare i due piani, coreografia e musica? In che modo i movimenti dei danzatori hanno dialogato con la musica dell’orchestra dal vivo?
“La costruzione dell’intera drammaturgia di ‘Grand Finale’ è stato un percorso che ha richiesto molto tempo proprio per la difficoltà di legare ogni piano espressivo all’altro. La sensazione è quella che si prova quando si è ai piedi di una grande montagna e la si vuole scalare, ma non si sa come trovare il modo di arrivare fino in cima. Ciò che avevo in mente era creare un qualcosa di selvaggio, profondo e complesso. Iniziando un percorso di questo tipo, non ho lavorato come uno scrittore di musica per film, che cioè scrive la partitura musicale e, su di essa, impronta la coreografia. Insomma, non si è trattato di un procedimento lineare, in cui si avanza in modo ordinato, da un passo all’altro. Direi, piuttosto, di aver lavorato come uno scultore che costruisce la materia pezzo per pezzo, sapendo che sarà questione di tempo. Ho iniziato a dedicarmi a questo spettacolo un anno prima di cominciare le ‘prove’, annotando idee, pensando agli arrangiamenti sonori e improvvisando, parallelamente, alcuni movimenti. Per quasi cinque mesi, ho lavorato con i danzatori e, solo dopo, con i musicisti. Sia i primi, sia i secondi operano su una scenografia mutevole, che cambia continuamente. Ciò fa si che la struttura drammaturgica sia sempre diversa, in continua trasformazione: i musicisti stessi appaiono e scompaiono. Volevo rappresentare un qualcosa che non fosse chiuso nella sua fissità. La scenografia si compone, per la gran parte, di muri, ai quali si cerca di aggrapparsi. Vi è, quindi, l’idea di attaccarsi a qualcosa di sfuggevole, che non ha stabilità, come la realtà in cui viviamo. Non c’è spazio per l’improvvisazione, all’interno della messa in scena. Ho l’abitudine di lasciar improvvisare i miei danzatori, anche se solo in una fase preliminare, per far loro esplorare lo spazio. Ma in realtà, le mie coreografie sono strettamente strutturate. Lo stesso vale per le musiche: i musicisti seguono partiture ben precise, a eccezione di un momento dello spettacolo, in cui hanno la piena libertà di improvvisare. Pretendo molto dai musicisti e dai danzatori per le mie creazioni, nella misura in cui chiedo loro di mettere in gioco se stessi nel mondo in cui li inserisco. E questo, per me, è una risorsa preziosa”.
Quali sono le forme di ispirazione alla base dei suoi lavori?
“Principalmente, sono la musica e il cinema, soprattutto quest’ultimo. Ogni film di Stanley Kubrick suscita in me un grande impatto: nei miei lavori ci sono molte tracce dei suoi film. Adoro la forza che sprigionano le sue immagini. Sotto alcuni punti di vista, i film di Kubrick si collocano a un livello che è molto vicino a quello della danza contemporanea. Non si tratta di qualcosa di descrivibile a parole: puoi parlarne per ore intere e, ogni volta, non riuscirai mai a centrare il punto, perché rimame sempre qualcosa di nascosto, di celato. Un qualcosa che accade nel subconscio e che possiede una tale potenza da non poter essere descritta. Altre ispirazioni provengono dai lavori di coreografi che ho incrociato negli anni della mia formazione. Ma l’ispirazione principale è il modo in cui le strutture sociali influenzano e manipolano gli individui: è questo il motivo per il quale amo lavorare con un gruppo di persone”.
Cosa vorrebbe lasciare allo spettatore che esce dalla sala dopo aver visto ‘Grand Finale’?
“Io spero sempre che le persone lascino la sala con un senso di empatia, anche se è un obiettivo davvero ambizioso. Mi piacerebbe far nascere un senso di fratellanza tra uomini e donne, quel sentimento che potrebbe venire allo scoperto se fossimo tutti insieme su una barca e, all’improvviso, venissimo sorpresi da uno strano temporale, costretti a fare quel che si può per rimanere ‘a galla’, uniti. Spero, insomma, di riuscire a sviluppare un senso che ci porti ad accorgerci di chi ci sta intorno e della realtà che ci circonda: un senso di compassione”.
Grand Finale
Coreografie e musica: Hofesh Shechter
Scene e costumi: Tom Scutt
Luci: Tom Visser
Collaborazione musicale: Nell Catchpole e Yaron Engler
Direttore artistico associato: Bruno Guillore
Assistente design scene e costumi: Rosie Elnile
Danzatori: Chien-Ming Chang, Frédéric Despierre, Rachel Fallon, Mickael Frappat, Yeji Kim, Kim Kohlmann, Erion Kruja, Merel Lammers, Attila Ronai, Diogo Sousa Musicisti James Adams, Chris Allan, Rebekah Allan, Mehdi Ganjvar, Sabio Janiak, Desmond Neysmith
NELLA FOTO QUI SOPRA: IL COREOGRAFO ISRAELIANO, HOFESH SCHECHTER
AL CENTRO E IN ALTO: DUE MOMENTI ENTUSIASMANTI DI 'GRAND FINALE'
LE FOTO UTILIZZATE NEL PRESENTE SERVIZIO SONO DI: RAHI REZVANI
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