Nel cinquantesimo anniversario del più importante evento sportivo della stagione, tutti gli Stati Uniti e gran parte del mondo si sono fermati per ammirare lo spettacolo del Levi’s Stadium in California e scoprire chi, tra i Denver Broncos e i Carolina Panthers, si sarebbe aggiudicato il prezioso Steve Lombardi’s Trophy
Per noi europei non è semplice capire e apprezzare un sport come il football americano, lontano anni luce nell’impostazione e nelle manovre dagli sport di squadra del vecchio continente: nato nel 1869 in apparenza simile al rugby nella forma ovale della palla e nel sistema di conteggio punti, si differenzia dal suo antenato per la composizione delle squadre (composte da circa cinquanta giocatori divisi in tre differenti team), nell’organizzazione tattica (fasi di attacco e difesa che si alternano in base all’avanzamento sul campo) e nei ruoli dei giocatori. Lo stesso campionato americano, la Nfl, si articola in un calendario organizzato in maniera molto 'americana', che un europeo non esiterebbe a definire “cervellotica”: si inizia con una 'regular season' in cui i trentadue team che compongono le due division (American Football Conference e National Football Conference) si affrontano fino ai play-offs, un girone a eliminazioni cui accedono i sei team migliori delle due divisioni; al termine di questa fase, si arriva al momento culminante della stagione: La Grande Partita ("The Big Game", come dicono gli americani), ovvero il Super Bowl. Si tratta di una finale secca in campo neutro scelto annualmente, la cui importanza mediatica (il costo per uno spot televisivo di trenta secondi durante la partita si aggira attorno alle decine di milioni di dollari) può essere paragonata solo alla finale di Coppa del Mondo Fipfa. Giunto al suo cinquantesimo anniversario, il Super Bowl di quest’anno (svoltosi domenica 7 febbraio e trasmesso in Italia nella notte su Fox sport e Mediaset Premium, anche se lo si poteva vedere 'in streaming' sul sito della Cbs) ha visto confrontarsi sul campo del Levi’s Stadium di Santa Clara, in California, i Denver Broncos e i Carolina Panthers, in un match che doveva essere la degna celebrazione di quello che, a tutti gli effetti, è l’evento sportivo più seguito al mondo. Nello stesso stadio in cui, circa un anno fa, la Wwe (World Wrestling Enterteiment) ha celebrato il proprio “Super Bowl”, Wrestlemania 31, milioni di persone in tutto il mondo, incollate davanti allo schermo della Tv, dello smatphone e del tablet, hanno potuto assistere alla vittoria dei Denver Broncos per 24 a 10 sui rivali della Carolina. Una partita, a voler essere onesti, assolutamente non entusiasmante, dominata dai Broncos dal calcio d’inizio fino al fischio finale in scioltezza, grazie a una fase difensiva solida che ha letteralmente annullato l’estro di Cam Newton: il 'quarterback' dei Panthers. Newton, grazie alle sue giocate e al suo carisma, si è letteralmente caricato sulle spalle la propria squadra nell’arco di tutta la regular season e dei playoff, guadagnandosi il titolo Mvp (Most Valuable Player, il miglior giocatore del campionato), spingendo tutti i bookmakers a dare la franchigia della Carolina come favorita per il titolo. Di fatto, è come se si fosse fermato negli spogliatoi senza neanche doversi fare la doccia. Tutti i pronostici della vigilia, come onde sugli scogli, si sono frantumati sulla linea difensiva di Denver guidata dal pass rusher Von Miller (nominato Mvp della partita), capace di regalare di fatto la vittoria ai propri compagni di team anche in una serata 'no' dell’altro grande protagonista atteso - e non pervenuto - di questa partita: Peyton Manning. Il trentanovenne quarteback dei Broncos, probabilmente alla sua ultima stagione da professionista, regala una prestazione in bilico tra la sufficienza e l’irritante, sbagliando molti passaggi e non dimostrandosi mai veramente in partita, uscendo a risultato acquisito circa dieci minuti prima della fine guadagnandosi, comunque, un’enorme standing ovation “alla carriera” dai 71 mila spettatori del Levi’s Stadium. Un omaggio dovuto al grande veterano che, con cinque titoli di Mvp guadagnati in carriera e due Super Bowl, è arrivato al momento di appendere gli scarpini al 'chiodo'. Non solo football, ma anche spettacolo e intrattenimento: uno dei momenti più belli e seguiti di ogni Super Bowl è lo Halftime show, il concerto di metà partita che ogni anno viene affidato a musicisti e cantanti di fama internazionale. Quest’anno l’onere è spettato ai Coldplay, che hanno suonato alcune delle loro canzoni più famose, tra cui 'Viva la vida' e 'Adventure of a lifetime'. A questi si sono uniti prima Bruno Mars, che ha cantato 'Uptown funk' accompagnato sul palco da un gruppo di ballerini e poi anche Beyoncè, che si è esibita con il suo nuovo singolo 'Formation'. Nel pre-partita, a intonare come da tradizione l’inno nazionale americano è stata scelta Lady GaGa, che con la sua performance ha incantato tutti gli States. Un turbinio di musica, spettacolo, sudore, fatica e ossa che si scontrano. Questo è lo spettacolo del football americano, capace di fermare una nazione grande come l'intera Unione europea davanti al televisore e d'incuriosire, con punte più o meno accese di scetticismo, il mondo intero. Questa versione del football viene spesso relegato a semplice rivisitazione 'americanizzata' del rugby britannico molto più 'fisica' e violenta a volerla dire proprio tutta. In parte, questa prospettiva può essere considerata corretta: rugby e football hanno una matrice generica comune in termini di gioco e, più vagamente, nel regolamento. Ma a uno sguardo più approfondito, ci si rende conto di come il football, ben più del baseball, sia il vero sport americano per eccellenza, in quanto metafora del mito della conquista del territorio a qualunque costo e qualsiasi mezzo. Per spiegare bene cosa sia effettivamente il football per gli americani, si può riprendere in parte il pensiero di uno dei più grandi scrittori sud americani del secolo scorso, Jorge Luis Borgues. Parlando dei "nord americani", con estrema onestà intellettuale, Borgues evidenziò come una nazione nata dal nulla, in cui la popolazione indigena era stata letteralmente decimata in quello che, a tutti gli effetti, è stato uno dei più brutali e sanguinosi genocidi della storia dell’uomo, non poteva avere "una Storia propria", non aveva una propria “Epica” che ne costituisse "il substrato culturale"; per superare questo limite "i coloni americani hanno creato", sempre secondo lo scrittore argentino, "una loro Epica contemporanea: una è Hollywood, l’altra è lo sport". Può sembrare un’esagerazione, in apparenza, ma la cultura dello sport e del football in particolare, viene insegnata ai giovani americani sin dall’infanzia, a cominciare dalla scuola: l’educazione fisica è, infatti, parte integrante dei programmi scolastici statunitensi, dalla Primary fino alla High School, garantendo ai talenti più promettenti la possibilità di ottenere una borsa di studio per l’Università. Lo stesso sistema universitario statunitense, dove di fatto discipline come il football, il basketball e il baseball sono state concepite e codificate nei rispettivi regolamenti, rappresenta ancora oggi il più grande bacino di reclutamento per le squadre professionistiche, grazie al sistema delle selezioni chiamate: "Draft lottery". Tutto questo con un unico traguardo uguale per tutti: la gloria del Super Bowl, la vera e autentica metafora del “sogno americano”.