Una delle nostre migliori interpreti ‘shakespeariane’ è tornata in Italia dopo aver spopolato al festival di Danzica, una delle rassegne teatrali più importanti d’Europa
L’attrice Caroline Pagani è tornata recentemente in Italia, reduce da un altro successo straniero al Festival ‘shakespeariano’ di Danzica (Szekspirowski Festiwal), nel corso del quale ha vinto due premi, quello della giuria e quello del pubblico, con le rispettive motivazioni: “Per lo spettacolare e variegato virtuosismo interpretativo, per la profonda e appassionata decostruzione del mito dell’eroina in un racconto della vita, della morte e dell’arte dolce e al tempo stesso amaro”. La motivazione del premio del pubblco, invece, è la seguente: “Per la sua prospettiva femminista del mondo ‘shakespeariano’ piena di amore per il teatro”. Di ritorno dall’est europeo, abbiamo voluto incontrarla durante un tranquillo pomeriggio veneziano di fine ottobre, per parlare insieme a lei di questi suoi nuovi successi.
Caroline Pagani, ci racconta innanzitutto questa sua esperienza in Polonia, dopo i ‘trionfi’ in Cina e in Spagna degli anni scorsi? Come mai ha deciso di recarsi in una città così lontana, affacciata sul Baltico, come Danzica?
“Il Festival ‘shakespeariano’ di Danzica (Festiwal Szekspirowski) è un vero e proprio viaggio nel passato, fino ai tempi del teatro ‘elisabettiano’, ma in una formula contemporanea. Si tratta di un festival nato con l’idea di diffondere l’opera del drammaturgo inglese e presentare spettacoli di qualità provenienti da tutto il mondo, mettendo in scena le sue opere. A parte i maggiori esponenti del teatro polacco contemporaneo, a Danzica hanno presentato i loro spettacoli artisti della Compagnia Laboratorio di Pontedera, Peter Brook e numerosi rappresentanti delle scene inglesi, fra cui Declan Donnellan e la compagnia del Globe Theatre di Londra. Ci sono voluta andare perché, oltre ad aver selezionato un mio spettacolo, trovo che esso sia uno dei migliori festival ‘shakespeariani’ del mondo. Si svolge in un bellissimo teatro scenotecnico, progettato dall’architetto veneziano Renato Rizzi. Ed è il primo teatro costruito in Polonia sin dalle fondamenta, alla fne della seconda guerra mondiale. Il teatro di Danzica, all’esterno è tutto nero, per permettere l’uso di videoproiezioni; dentro, invece, è tutto bianco, come un grande ‘Globe Theatre’. Grazie all’impiego di soluzioni innovative come il tetto apribile o la platea mobile, il teatro ha in sé tre scene in una: quella italiana, quella inglese e l’arena centrale. Tali distinte forme sono state concepite per ricreare in modo fedele le condizioni tanto del teatro ‘elisabettiano’, quanto della commedia dell’arte. L’inaugurazione di questo splendido teatro ‘elisabettiano’ è stato, allo stesso tempo, un evento e un’occasione per celebrare le potenze plastiche del simbolo e i valori, gli ideali che hanno sostenuto il tormentato processo storico della città baltica e della nazione polacca. La costruzione del nuovo teatro di Danzica, insomma, incorpora le potenze ideali e metafisiche dello spirito polacco. E non poteva ignorare l'opera di un grande uomo e regista, Jerzy Grotowski, che pensava al teatro come 'cerimonia rituale', alla 'santità dello spazio scenico’. E’ un luogo in cui il 'simbolo' e il 'sacro' si uniscono. Il teatro, con la 'cerimonia rituale' dell'apertura delle ‘ali’, braccia metalliche che si protendono in alto verso il cielo, esprime un gesto di gratitudine nei confronti di quello spirito polacco e di quegli ideali che, ancora oggi, ci dovrebbero accomunare, rinnovando e perpetuando la liturgia della devozione alla città di Danzica e alle sofferenze di un popolo che sono alla base dei valori e della dignità umana”.
Come fa a portare in giro per il mondo i suoi spettacoli quasi sempre da sola?
“Portare in giro per il mondo i miei spettacoli facendo tutto da sola, molte volte senza neanche un tecnico e ogni volta in una lingua diversa, è come farlo ogni volta per la prima volta. E’ sempre un nuovo debutto, dal punto di vista dell’allestimento. E anche da quello interpretativo. Oggi, di ogni testo teatrale, mio o da me riadattato, esistono le versioni italiana, inglese e spagnola. E sto lavorando alle traduzioni delle versioni in lingua francese”.
Che differenze s’incontrano tra il teatro polacco e quello italiano?
“Il teatro polacco contemporaneo è molto interessante, coraggioso, ardito, emotivo, profondo. Il pubblico è splendido, forse facilitato dal fatto che il mio spettacolo fosse senza sopratitoli, ma integralmente in lingua inglese. Ma i premi (a volte anche in denaro, per fortuna) e le recensioni meravigliose non bastano. Nel nostro Paese, purtroppo, c’è una tendenza allo ‘scambismo’, ad adottare criteri ‘scambisti’, al rimescolamento di aspetti che dovrebbero rimanere distinti e valutati per il loro valore artistico e che, invece, qui da noi si fondono con quelli politici, appiattiti dal ‘do ut des’, dal prendere e comprare il tuo impegno artistico in cambio di un lavoro che acquisisci nel tuo teatro. Insomma, negli altri Paesi, in generale, c’è più meritocrazia e molta curiosità. Ogni volta che torno da un festival estero, mi sento arricchita, mentre in Italia spesso si viene sviliti. Bisognerebbe insegnare Storia del Teatro sin dalle elementari: credo aiuterebbe a sviluppare anche un senso civile e politico. Sono stata invitata a partecipare al Festival di Danzica anche per l’anno prossimo: ci tornerò volentieri”.
Quali sono i suoi progetti futuri? A cosa sta lavorando?
“Oltre a quelli che l’Universo mi vorrà proporre, ne avrei e ne ho molti. Spesso, la realizzazione di un progetto non dipende solo dalla tua volontà, competenza o talento: la volontà, per quanto ferrea, non basta. Sia come sia, al momento sto lavorando ad alcuni allestimenti e riscritture ‘shakespeariane’, come per esempio: ‘Maleficents: cattive’. Si tratta di uno studio sulla perfidia femminile, che include eroine di Tito Andronico, Riccardo III, Re Lear, Enrico VI e altre. Oppure, ‘Desdemona: amore e morte a Venezia’. Si tratta di un testo ispirato a Othello, in cui oltre al tema del ‘femminicidio’ intendo porre in evidenza i discorsi che le donne fanno alle donne sui desideri delle donne, uguali a quelli degli uomini: molto contemporanei. Othello, secondo me, è una ‘tragedia della parola’, del potere fantasmagorico che essa possiede di evocare immaginari, come le fantasie pornografiche che Jago instilla nella mente del protagonista. E’ un’opera visionaria, più che un dramma della gelosia. Certo, il tema della gelosia e delle passioni umane è centrale, ma presa nel suo complesso, Othello è e rimane una tragedia della parola, sul potere della calunnia, sulla gratuità della malvagità. Il mio vuole anche essere un lavoro dedicato a Venezia, città che amo profondamente”.
Che rapporto ha con la città della laguna?
“Venezia è una città unica al mondo, magica. Qui, i sensi sono sempre sollecitati dalla luce, che cambia in ogni istante, dall’acqua che leviga le pietre dei palazzi storici, ai passi che si perdono nella nebbia silenziosa. Venezia ha il potere, più di altre città, di amplificare emozioni e percezioni, nel bene e nel male. Anche se magari dentro puoi sentirti devastata, non ti senti sola, avverti la solitudine in maniera diversa rispetto ad altre città, senti meno un senso di alienazione, ma di comunione con la natura che ti circonda".
Anche Venezia ha i suoi problemi, però...
“Venezia è una città irripetibile, con un enorme patrimonio artistico e storico. È molto delicata, fragilissima, ma viene costantemente violata da un turismo di massa predatorio, dalle grandi navi, da ecomostri che irrompono come mandrie di carri armati che la sovrastano e la sommergono esponendola a un degrado costante. Viene violentata in branco senza tregua. L’estetica e la qualità della città sono oscurate da negozi di souvenir di plastica, che sempre più sostituiscono librerie e botteghe artigiane. Venezia è un’opera d’arte, tra le più grandiose e insieme le più fragili che esistano sul Pianeta: essa merita di essere rispettata da un turismo più sostenibile, consapevole, di qualità. Come spesso succede con i capolavori italiani, è una città creata dal connubio di forze tra gli uomini e la natura”.
Proseguiamo con i progetti: a quali altre idee sta lavorando?
“A un allestimento di un testo di Steven Berkoff sul carteggio erotico fra Amleto e Ofelia, che ho tradotto. Poi, a un testo su Salomé e altre figure femminili di cui si narra nella Bibbia, perché rappresentano un ‘archetipo femminino’ complesso. E’ un testo che parla di come noi donne possiamo amare e del potere distruttivo del rifiuto, del ‘tradimento’ in un senso ampio. A tratti, lo lascio decantare e riprendo in mano un altro progetto dal titolo: ‘Solo per amore dell’Amore: un viaggio con Herbert Pagani’. E’ un lavoro dedicato a mio fratello: cantautore, poeta, artista visivo, pacifista, ecologista, ambrogino d’oro. Sto cercando la produzione ‘giusta’, per far conoscere la sua opera artistica in tutte le sue sfaccettature: prosa, poesia scritta e cantata, radiofonia, scenografia, tecniche video, scultura, pittura. Lui le ha fatte danzare assieme, lo hanno visto impegnato contemporaneamente e costantemente: non ha molto senso fare una cosa tanto per ricordarlo nell’arco di una serata e poi basta. Herbert era un artista geniale, eclettico, di grandissimo spessore, dotato di capacità notevoli, varie, anticipatore dei tempi, più conosciuto in Francia che in Italia, impegnato, politicamente ed ecologicamente. Le sue canzoni, oltre a essere altissima poesia, sono preghiere, apologie, poesia in musica. Era - ed è – amatissimo ancora oggi. Anche dai giovani, che hanno visto le opere d’arte che realizzava raccogliendo materiali dalle spiagge, nelle mostre che sono state fatte postume a Milano e a Ferrara, curate da Arturo Schwarz e recensite da Vittorio Sgarbi. Sono migliaia i fans e i nostalgici, anche in rete, desiderosi che venga realizzato qualcosa di bello per far rivivere la sua opera. Io vorrei far conoscere l’intera opera di Herbert a 360 gradi, nella sua pienezza, nei suoi aspetti poetici e in quelli impegnati, dando spazio alla canzone, ai testi poetici, a quelli politici, sempre lucidi e attualissimi - spesso premonitori delle nostre ‘derive’ - e alle sue opere visive: disegni, pitture, sculture, scenografie. Sensibile alla problematica mediorientale, alla pace nel mondo e, soprattutto, fra Israele e Palestina, ne fece una delle missioni della sua vita. Per me è stato ed è un Maestro interiore, che mi porto dentro, che mi guida nei momenti di sconforto, che mi ricorda che un artista non è mai solo. Proprio a Venezia, Herbert ha dedicato un concerto, mlti disegni, un pamphlet cinematografico per la salvaguardia della città, intitolato ‘Venise, amore mio’, che l’Unesco ha scelto come mezzo di informazione sui pericoli che minacciano la laguna. Inoltre, sto lavorando anche a un film, che vorrei girare al cimitero ebraico di Venezia, nella parte antica. E’ un luogo magico, bellissimo, non sembra un cimitero, ma un bosco incantato, come quelli che troviamo nella tradizione folcloristica anglosassone. Spesso, quando sei in un cimitero dimentichi, magari non del tutto, ma in larga parte, le tue angosce, i mali del mondo. In un cimitero si capiscono le cose, capisci che ‘io siamo noi’. Infine, vorrei produrre un cd che raccolga le canzoni, italiane e francesi, di mio fratello”.
Perché? Lei canta?
“Sì, canto. Anche se da attrice. Conosco le canzoni di Herbert a memoria, in italiano e in francese. Purtroppo, non suono strumenti musicali. Ah! Ho pronto anche un progetto dedicato a ‘Shakespeare nella pittura’...”.
Lei è anche un’ottima autrice e drammaturga, che ha vinto vari premi con suoi testi, non solo teatrali: ci parla della scrittura?
“Sì, libri: uno sul desiderio, sull’eros, sul sesso in Shakespeare che sia per tutti, ‘shakespearofili’ e non, quindi anche ‘educational’, filologico ma divertente; uno sugli amori non vissuti, e quindi fantasticati, che poi sono quelli che non muoiono mai, che durano per sempre, che forse fanno più danni di quelli vissuti anche per un attimo: basti pensare a Othello; un romanzo autobiografico sulla tormentata storia della mia famiglia, che poi è la storia delle persecuzioni naziste, fasciste, degli olocausti, degli Ebrei di Libia, delle diaspore e di una famiglia, o almeno di un albero genealogico, da cui tutti, bene o male, proveniamo e che, quindi, ci riguarda tutti”.
Sogni?
“Qui in Italia imperversa soprattutto una forma pubblica, mentre invece sarebbe auspicabile fossero sviluppate anche forme private di finanziamento e sostegno, che permettano alla cultura di camminare autonomamente. Tuttavia, vorrei occuparmi della direzione artistica di un teatro, che valorizzi unicamente la qualità degli spettacoli e di performances di artisti da tutto il mondo, in tutte le lingue, con annessi festival e rassegne. Mi piacerebbe scoprire talenti che meritino di essere supportati, di avere visibilità, facendo sì che la loro arte viva e circoli nel mondo. Creare una comunità culturale internazionale in cui scelte, concorsi, selezioni siano basate sulla qualità, sul merito, sulle competenze, sui talenti. Le audizioni per i musicisti spesso si fanno coi numeri. Ecco: a parlare, a comunicare dev’essere il prodotto, la proposta artistica, l’opera, l’arte. Insomma, voglio fare l’attrice, per i miei e altrui spettacoli, finché avrò vita”.
LE FOTO UTILIZZATE NEL PRESENTE SERVIZIO SONO DI BARBARA LEDDA E NEGIN VAZIRI