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21 Novembre 2024

Con la bocca piena di spille e la poetica degli oggetti

di Silvia Mattina
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Con la bocca piena di spille e la poetica degli oggetti

La vita di Leda ha un sapore di metallica ossessione, che riflette uno scorrere del tempo, preconfezionato e cadenzato dalla monotonia di un lavoro dietro una fredda scrivania d'ufficio

“Non si può dire se è lo sguardo o sono le cose a comandare”: tutto dipende dalla scelta che ognuno fa quando permette a un oggetto di entrare nel proprio mondo. Così sul palco di cose ce ne sono molte. E tutte così diverse da creare un museo. Questo il presupposto 'scenografico' dello spettacolo ‘Con la bocca piena di spille’, scritto e musicato da Martina Tiberti e diretto da Raffaele Balzano, andato in scena il 23 e il 24 novembre 2016 all'interno della 9a edizione di ‘EXIT - Emergenze per identità teatrali’, rassegna multidisciplinare ideata e realizzata dalle compagnie aderenti alla Federazione italiana artisti presso il Teatro dell’Orologio in Roma. A solcare il palcoscenico, due personaggi complementari tra loro: da un lato, c'è un venditore ambulante, che ha raccolto nel tempo una grande quantità di arredi, libri, vestiti e il suo scopo è quello di dare dignità alle sue merci, donandogli una seconda vita. Il suo è un intimo teatro delle ‘tante esistenze’ che hanno dato un senso all'utilità di quelle merci, non più semplici contenitori del quotidiano, ma nuovo ‘luogo’ delle relazioni tra gli individui; dall'altra parte del palco, Leda, divenuta la segretaria di ignoti ‘capi’ e inondata dalla solitudine, si convince di essere la 'paladina delle responsabilità'. Azioni di normale amministrazione (ordinare i documenti, spillare montagne di carte, archiviare lettere e avvisi) possono diventare atti di ordinaria follia e di epica realizzazione. Una visione paradossale per una dipendente seduta tutto il giorno da sola, senza aver mai visto passare il 'capo' e che non sa nemmeno per chi svolge le sue mansioni quotidiane. Tale alienante solitudine è guidata dalla voce del venditore, che sembra essere più vicino alla figura di un moderno ‘anfitrione’: un 'homme  charmant', che legge il diario della giovane e presenta, nude e crude, tutte le sue debolezze e le sue fragili convinzioni sull'esistenza. È in atto un cammino catartico e liberatorio, che passa attraverso due tappe fondamentali nella vita della donna: il potere taumaturgico dell'elefantino ‘zoppo’, acquistato dall'ambulante e il dialogo con i vestiti della sua infanzia, dalla felpa che suona ‘Five years’ di David Bowie, agli indumenti che parlano con cadenza dialettale, mutuata dal ‘campionario verdoniano’ degli anni ’80 del secolo scorso. È emblematico e significativo che la riappropriazione della propria identità e della purezza avvenga a partire dagli indumenti e dall'intimità delle quattro mura, perché 'noi siamo le cose che usiamo'. Si tratta di 'piccole cosmologie', come le ha definite l'antropologo inglese Daniel Miller, che nel suo libro 'Cose che parlano di noi: un antropologo a casa nostra', ridefinisce il concetto di consumo partendo dall'idea che l'individuo deve continuamente agire nella direzione di un’appropriazione simbolica dei beni, finalizzandolo alla costruzione della propria identità individuale. Quest'ultima arriva, per la protagonista, nel momento in cui abbandona la ‘maschera’ di ‘rigidità’ di un ruolo che non le è mai appartenuto e che non necessita di nuovi autoinganni e illusioni alla maniera ‘pirandelliana’.Nel finale trionfa l'uomo artefice del proprio destino, che rifiuta l'omologazione sociale e conduce il pubblico a un'intima riflessione sulla disgregazione dell'Io nell'attuale frenesia del consumo. Il gesto di Leda che cambia il finale del proprio diario rompe il circolo vizioso e pone la rappresentazione su un livello di ‘terapia panica’, o meglio di 'psicomagia' teorizzata dal drammaturgo da Alejandro Jodorowky. Una ‘cura’ al termine della quale, lo spettatore non può che uscire profondamente guarito.

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