Una splendida perfomance ‘teatral-musicale’ di Marica Roberto e del suo gruppo ‘Attori&Musici’ ha narrato al pubblico romano le terribili condizioni delle donne nel Mezzogiorno d’Italia, in un territorio infestato da retaggi di inciviltà e arretratezza morale
Si è tenuto di recente, presso il centro culturale ‘Artemia’, all’interno di uno spazio assai funzionale immerso nel cuore del quartiere romano Portuense, uno spettacolo scritto, diretto e interpretato dall’attrice Marica Roberto, dal titolo: ‘Fata Morgana: fantasia su un mito’, musicalmente accompagnato dalla compagnia ‘Attori&Musici’. Si è trattato di una messa in scena particolare, dedicata alle donne vittime della criminalità organizzata. Nella cultura dell’Italia meridionale, la Fata Morgana è un miraggio che si materializza nello stretto di Messina, infastidendo pescatori e marinai al fine di intrappolarli nelle tempeste e trascinarli verso il naufragio. Nella rappresentazione offerta dalla Roberto, questo personaggio mitologico viene invece richiamato per svolgere l’innovativa funzione scenica di cantastorie che celebra il proprio grande anatema contro le mafie e le culture dell’onore, nemiche innanzitutto delle donne, costrette a convivere tra paure, negazioni, sottomissione, violenza e discriminazioni. Nel corso della grande maledizione, la Roberto racconta, con l’aiuto degli ottimi Carmelo Cacciola, Pietro Cernuto e Francesco Salvadore, le drammatiche vicende di alcune donne che hanno cercato di opporsi a un intero universo di profonda ingiustizia, che hanno tentato di vivere una vita normale all’interno di un mondo rovesciato, caratterizzato da consuetudini ataviche e retaggi distorti. Sopraffazione, violenza e morte sono i demoni che hanno perseguitato la vita di ognuna di queste figure, ben rappresentate da una fata ‘mutaforme’ che cerca di liberare spiritualmente la propria terra, il sud, dalle barbariche culture che la infestano. Il risultato è un eccellente spettacolo di prosa, canti e musica dal vivo che ricompone splendidamente lo sfondo culturale e identitario dell’Italia meridionale, aiutando lo spettatore a calarsi nelle realtà siciliane e calabresi più drammatiche e sofferte. Il repertorio musicale è infatti proveniente dalle più autentiche tradizioni artistiche del Mezzogiorno, colme di forza, furore e allegria grazie a strumenti come il liuto cretese, la zampogna, i friscaletti, il marranzano e i tamburi a cornice, coniugati, ovviamente, all’immancabile chitarra classica. La Fata Morgana, insomma, denuncia le assurde vicende delle donne del sud con la delicatezza e la sofferenza con cui si ricostruisce il doloroso martirio di figlie e sorelle. Questi i loro nomi: Palmina Martinelli, Rossella Casini, Marilena Bracaglia, Tita Buccafusca, Angela Donato, Maria Teresa Gallucci e sua madre, Nicolina Celano e la nipote, Lea Garofalo e la figlia Denise. Nel cuore di una società che brucia, queste mogli, madri e figlie sventurate hanno vissuto esistenze ed esperienze a lungo taciute, di cui non si doveva più di tanto parlare, al fine di dissimulare una questione, quella delle culture mafiose, che vuol essere erroneamente mantenuta in precisi ambiti territoriali. E’ dunque esattamente questo il merito principale della rappresentazione della Roberto: quello di richiamare nel cuore e nella mente di tutto il pubblico come non si tratti affatto di una problematica riguardante esclusivamente il sud, bensì di una questione che coinvolge ogni singolo cittadino. Non riusciremo mai a rigenerare un nuovo frutto cultural-nazionale moderno e socialmente avanzato, se si continuerà a fare finta che determinati ‘casi’ non siano di nostra pertinenza diretta. Le mafie costringono la magistratura italiana e le forze dell’ordine a una guerra sfibrante, costosissima in termini di vite umane, maledetta coma una terribile ‘partita a scacchi’. Queste sono le caratteristiche peculiari della lotta tra legalità e illegalità, tra cultura e consuetudine, tra civiltà e arretratezza. L’apporto musicale della compagnia di Marica Roberto è talmente coinvolgente da scaldare il cuore degli spettatori, sino a percepire un senso di sfida interiore profondamente morale, che raggiunge un desiderio posto esattamente al confine tra giustizia e vendetta contro il male commesso nei confronti di queste donne, per tutto ciò che esse hanno dovuto patire e subire. Ecco sintetizzate qui di seguito le loro storie:
Palmina Martinelli: bruciata viva dal fidanzato e da un suo compare poiché rifiutava di prostituirsi. Prima di morire, con un flebile filo di voce, ha fatto il nome dei suoi carnefici, ma il processo seguito alla sua morte ha mandato assolti i due imputati.
Rossella Casini: ragazza fiorentina che ha avuto la sventura di innamorarsi di un ragazzo calabrese negli anni dell’università. Il ragazzo era figlio di un boss della ’ndrangheta ucciso nel corso di una faida locale. Anche il suo ragazzo, un giorno, viene ferito gravemente. Dunque, Rossella lo convince a collaborare con le forze dell’ordine e a fare i nomi di coloro che gli avevano ammazzato il padre. Il ragazzo prima collabora, poi viene costretto a ritrattare. E chi ci va di mezzo è proprio Rossella, che a 25 anni scompare misteriosamente da un giorno all’altro. Dopo 13 anni di inutili ricerche, finalmente si viene a sapere che il corpo di Rossella è stato fatto a pezzi e gettato in fondo al mare. Gli imputati sono stati tutti assolti per insufficienza di prove.
Maria Teresa Gallucci: vedova già a 25 anni del boss di Alviano e con tre figli da crescere, a 40 anni riscopre l’amore. Ma si tratta di un amore proibito secondo le leggi della ‘ndrangheta, poiché non solo era rivolto a una donna, ma verso la moglie di un altro boss mafioso, la quale a sua volta aveva avuto un figlio ormai divenuto anch’esso appartenente alle ‘ndrine di Rosarno. La sua amante viene subito eliminata. Maria Teresa allora fugge spaventata al nord, rifugiandosi dalla sorella a Genova insieme alla madre, Nicolina Celano. Un giorno, le donne vengono individuate e raggiunte: il 18 marzo 1994, Maria Teresa apre la porta a qualcuno che uccide lei, la figlia di sua sorella, Marilena Bracaglia - casualmente rimasta a casa quella mattina - e la madre Nicolina, accorsa agli spari.
Tita Buccafusca: moglie di un boss, un giorno si presentata con suo figlio dai Carabinieri per chiedere protezione e collaborare con la giustizia. La famiglia cerca di screditarla, facendola passare come una persona affetta da gravi problemi psichici, sino al punto da indurla al suicido bevendo una bottiglia di acido.
Lea Garofalo: assassinata dal compagno e dal fidanzato della figlia Denise. Quest’ultima, che ha denunciato il padre, lo scorso 19 ottobre 2013 ha fatto celebrare i funerali di Lea, poiché finalmente sono stati ritrovati i resti di sua madre. Lea aveva tradito il marito, Carlo Cosco, boss della ‘ndrangheta crotonese. Madre e figlia vengono dunque inserite nel programma di protezione dei collaboratori di giustizia e vivono nascoste per sette lunghi anni, costrette a continui trasferimenti. Lea, alla fine, viene individuata e raggiunta dal marito a Milano nel 2009 e, dal quel momento, di lei non si sono più avute notizie.
Angela Donato: oltre a essere la compagna di vita di un mafioso, era essa stessa un personaggio influente e operativo di una potente cosca della ‘ndrangheta di Vibo Valentia. Suo figlio, un giovane di bell’aspetto, a un certo punto seduce la moglie di un capoclan concorrente, dopodiché scompare misteriosamente. Angela intavola allora un’assurda trattativa con i diversi clan mafiosi calabresi, chiedendo almeno di riavere il corpo del figlio. Non ottenendo risposta alcuna, nel 2004 passa dalla parte dello Stato. Nel 2006, un pentito, finalmente, svela la verità sulla fine del ragazzo e i nomi dei responsabili del barbaro delitto. Ciò non è bastato a far condannare gli imputati.