I suoi spettacoli, apparentemente parodistici e dissacratori, costituiscono un brillante tentativo di rendere più contemporanei e vicini celebri testi: summa originale e ben riuscita di un ossequio alla tradizione che non cade nel tormento del confronto
Cinico e pessimista cronico, Gabriele da piccolo sognava di diventare compositore di musica elettronica. Crescendo, le cose sono andate diversamente, ma l'idea di una professione all'insegna della creatività e del 'mettersi in gioco' chiaramente è un tratto distintivo del suo dna. Attore, regista e drammaturgo, lo avevamo conosciuto al Teatro dell’Orologio di Roma in ottobre con ‘Amleto FX’, un’originalissima e divertente rivisitazione dell’opera shakespeariana. Qualche mese dopo lo abbiamo ritrovato alle prese con un altro grande classico, ‘Sei personaggi in cerca di autore’ di Luigi Pirandello. Indagatore e curioso di natura, ciò che emerge maggiormente dalle sue rappresentazioni è la mancanza di regole o di schematismi precostituiti facilmente intuibili.
Impossibile non accorgersi infatti del tocco personalissimo che condisce ogni suo spettacolo: dal riadattamento dei testi, alla scelta delle scenografie, alla selezione musicale, agli ‘effetti speciali’. Il costante ricorso a un particolare utilizzo delle luci, dei suoni, del movimento del corpo, delle ‘maschere’ (anche metaforiche), così come l’uso di fumi, sono peculiarità dei suoi lavori. Tratto distintivo di una crescita artistica che lo ha condotto a una totale libertà – che spesso si traduce in incoscienza – di interpretazione e rivisitazione.
Nelle sue rappresentazioni nulla è scontato. Anche quando a essere portati in scena sono i testi più famosi consacrati dalla tradizione. Il suo obiettivo: ‘arrivare’ al pubblico e lasciare una sua traccia. Per farlo ha scelto di non emulare, ma di personalizzare e rendere contemporanee vicende e storie lontane nel tempo. Con il supporto di quegli effetti speciali (FX) a lui tanto cari.
Noi di Periodico Italiano Magazine lo abbiamo incontrato per saperne di più. Seguiteci nell’intervista che vi proponiamo.
Gabriele Paolocà, perché ancora si sceglie di portare in scena Amleto?
“Con Amleto si comincia. Con Amleto si finisce. Amleto non dovrebbe mai essere interpretato. Tra noi attori si dice di tutto su quest’opera. Ma ciò che resta invariato è che Amleto è una sfida che prima o poi arriva. Ed è la sfida più ardua. A esser sincero, la mia personale scelta di portare in scena Shakespeare è stata determinata da un episodio inconsueto: un amico mi ha parlato del suo fantastico costume di Amleto, ormai inutilizzato. Allora ho pensato che sarebbe stato ‘saggio’ mettermi finalmente nei suoi panni. Poi, ovviamente, la figura dell’antieroe è qualcosa che mi affascina da sempre”.
In entrambi gli spettacoli non abbiamo potuto fare a meno di notare come la chiave escatologica sia la stessa: ‘gli eroi’ diventano ‘icona’ di tutti i mali e di ogni tempo: ci spiegherebbe il motivo di questa scelta?
“Potrà sembrare banale, ma io parto sempre dal presupposto che uno dei grandi segreti del teatro è la capacità di andare a scavare dentro se stessi e portare fuori la propria intimità. Dico questo perché nei miei spettacoli c’è sempre molto di me. ‘Amleto Fx’ è uno spettacolo molto personale: dalla ricerca di questo padre, all’incomunicabilità con il mondo esterno, alla prigionia. Sicuramente i miei sono azzardi. Ma poi c’è la gratificazione da parte del pubblico che confessa di aver visto anche tanto di sé”.
Come si attualizza un testo ormai celebre? Non teme critiche al riguardo?
“Quando ho deciso di preparare questi spettacoli ho riletto i testi. E ho capito che così com’erano non mi appartenevano. La distanza maggiore la avvertivo soprattutto con Shakespeare. Così è partita la mia sfida di non voler ‘sottostargli’. Ho preso il succo dell’opera e ho tentato di riprodurre ciò che a me interessava davvero. Tra le varie necessità nel riadattare uno spettacolo, la prima che percepisco è quella di portare le storie a una dimensione più contemporanea. Il rischio di sbagliare, di incappare in errori e di suscitare polemiche sicuramente esiste ed è reale. Anche perché, elevandoti al livello del bardo, il rischio di non essere all’altezza è sempre dietro l’angolo. Ma io sono abbastanza incosciente. E da questo punto di vista non mi pongo troppe domande: non ho paura di andare a stravolgere tutto. Quando si fanno troppe domande non si arriva mai a qualcosa di concreto. Credo che l’incoscienza sia una grande forma di creatività".
Da piccolo sognava di diventare compositore di musica elettronica: gli ‘effetti speciali’ (FX) che tornano costanti nelle sue direzioni sono retaggio di questo sogno? Se sì, cosa sono e perché li usa?
“Sì: sicuramente sono fortemente influenzato da questa passione per la musica elettronica e per i diversi effetti che permette di creare e riprodurre. Effetti che, negli spettacoli, sono innanzitutto mezzi che faccio utilizzare ai protagonisti per raggiungere i loro intenti. In Amleto, per esempio, gli effetti speciali non sono altro che degli escamotage che lui stesso va a crearsi – e di cui ha bisogno – per evadere e riuscire a raggiungere il grande intento. Che nel ‘mio’ Amleto è chiaramente il ‘non essere’. Ma per poter arrivare a quel non essere, c’è tanto essere da abbattere: e qui intervengono gli effetti. Anche banali, come può essere una semplice parrucca o una differente posa del corpo che trasformano il personaggio in qualcos’altro o in un altro personaggio ancora. Oppure, può essere sufficiente una giubba da marinaretto per evocare la presenza di un bambino che invece fisicamente non c’è, come accade in ‘Sei personaggi in cerca di autore’”.
Secondo lei, cosa conta veramente in uno spettacolo?
“L’importante è arrivare al pubblico. Magritte quando presentava un quadro non lo commentava mai, lasciando che fossero gli altri a giudicare l’opera e a parlarne. Mi piace pensarla allo stesso modo. Ognuno ha un suo modo di recepire. E se nei miei spettacoli riesco a offrire diversi spunti e diverse chiavi di interpretazione, ne sono assolutamente felice. Perché sento di aver raggiunto l’obiettivo”.
In che modo è riuscito a far diventare divertenti due enormi tragedie?
“Probabilmente nell’azzardo dei paragoni: tra ciò che sono i protagonisti e quel che sento io dentro. Sono un cinico cronico. E credo che in realtà lo fossero anche tutti i grandi drammaturghi, dietro i quali si nasconde una grande dose di umorismo. Probabilmente questo aspetto deriva dal fatto che quando si affrontano temi veramente forti, profondi, tragici, il vero ‘sballo’ è farlo attraverso una chiave comica e dissacrante. Questa è una caratteristica tutta italiana, che ci appartiene e dalla quale non possiamo prescindere: il riso amaro è un filo che unisce molte delle nostre tradizioni artistiche. Nel teatro, basti ricordare semplicemente De Filippo o Totò”.
Fra una battuta e l’altra, 'tra le righe' dei suoi testi muove anche molte critiche alla contemporaneità: quali e perché?
“La superficialità che sta facendo morire tutto. Il fatto che la cultura sia ormai messa in secondo piano, occupando posti sempre più marginali. Il meccanismo sociale, che ‘spinge’ evidentemente in direzione del trionfo dell’egoismo. Quindi, l’isolamento e la chiusura crescenti degli individui, trincerati tutti nelle proprie stanze metafisiche. Mentre, invece, basterebbe veramente poco. Anche perché la porta non riusciamo a chiuderla mai del tutto”.
Da dove prende ispirazione per l’introduzione di elementi nuovi nei testi?
“Innanzitutto focalizzo l’attenzione sugli elementi e sui personaggi che mi hanno interessato di più e che mi hanno colpito maggiormente. Da lì è ricerca drammaturgica. E in particolare, come accennavo prima, ciò a cui ambisco è la questione dell’umorismo intelligente e quello che passa per le grandi metafore. Nel teatro, sono costantemente spinto dalla volontà di provare a creare ambiguità: un corto circuito emotivo nello spettatore, che lo trasporta dal sorriso al pianto in un batter di ciglia”.
Qual è, secondo lei, il segreto di un buon spettacolo?
“Per la mia esperienza credo che portare a teatro un’urgenza vera, viva, nitida, che si nasconde rispetto a ciò che va in scena e che trema sotto alle maschere e al testo, sia già un’ottima premessa. Poi, probabilmente, la differenza la fa il cuore: credo che quando dietro a uno spettacolo si nasconde un cuore, il pubblico lo senta”.
Chi fa teatro al giorno d’oggi?
“Noi: i folli e i disperati. Coloro che ancora proteggono un sogno e sperano in quella porta socchiusa. Tutti quelli che sperano fermamente che Amleto possa uscire da quella stanza. E quelli che si prendono delle responsabilità: perché noi siamo degli analisti che guardano la società e la riformulano attraverso l’arte, riuscendo a guardarsi dentro e a farsi un esame di coscienza. Forse, se si tornasse alla grande cultura, spenderemmo meno anche in psicoanalisi”.
Gabriele Paolocà
Romano, classe '85, Gabriele Paolocà è attore, regista e drammaturgo. Nel 2010 insieme a Michele Altamura, Nicola Borghesi, Riccardo Lanzarone, suoi compagni alla ‘Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe’ di Udine, fonda la compagnia VicoQuartoMazzini per la quale scrive, dirige e interpreta ‘Diss(è)nten (2011) – Premio della critica al Playfestival 2013 Atir Teatro Ringhiera/Milano e Premio Next Generation 2013 Carichi Sospesi/Padova – Boheme! (2013) e Amleto FX (2014).
Come attore ha collaborato con Elena Bucci e Marco Sgrosso (Le Belle Bandiere), Michele Sinisi, Michele Santeramo (Teatro Minimo), Fabio Morgan, Leonardo Ferrari Carissimi (Progetto Goldstein – Teatro dell’Orologio).