Una rappresentazione sorprendente per l'originalità delle soluzioni messe in scena, che immergono lo spettatore in un mondo composto da suoni antichi, ma pur sempre riconoscibili: una 'due giorni' romana assolutamente da segnalare
Sabato 25 febbraio 2017, alle ore 21.00 e domenica 26, alle 18.00, presso il laboratorio ‘Teatrocittà’ di Torrespaccata in Roma, Silvio Barbiero, presenta il monologo ‘Groppi d’amore nella scuraglia’, tratto da un divertente racconto di Tiziano Scarpa. Attraverso una lingua inventata, che richiama i dialetti del centro-sud, Barbiero, già vincitore del premio come miglior attore al Roma Fringe Festival 2014, descrive un percorso di rinascita e, in qualche modo, di redenzione. Il linguaggio poetico di Scarpa deforma l’immaginario collettivo. E i corpi dei protagonisti diventano archetipi grotteschi di un mondo in sfacelo: immagini che richiamano l'immaginario di Bosch, raccontando la storia di Scatorchio e del suo amore per Sirocchia, in una località sommersa dai rifiuti. Una rappresentazione sorprendente per l'originalità delle soluzioni messe in atto, che immergono lo spettatore in un mondo composto da suoni antichi, ma pur sempre riconoscibili. Al termine del monologo, Silvio Barbiero presenterà, inoltre, il workshop teatrale: ‘Bestiario dell’anima’. Ci sono sentimenti, emozioni e concetti per cui le parole note non bastano: bisogna inventarsene delle altre, per allineare la lingua all’anima. Eppure, ciò non è sufficiente, perchè poi dobbiamo avere corpi capaci di contenere ed esprimere questo nuovo lessico. Per affrontare questo aspro battaglio, Barbiero è intenzionato a stimolare il pubblico in sala a “farsi prestare le ali da li ‘rendenelli’, l’abbaio de lu ‘cane canaglio’, l’astuzia de lu ‘gatto gattaro’ e di tante altre bestie”, ognuna delle quali rappresenta un volto delle nostre nevrosi quotidiane. Ai partecipanti sarà richiesta la conoscenza a memoria di un breve brano tratto dal racconto di Tiziano Scarpa ‘Groppi d’amore nella scuraglia’, tra una selezione fatta dallo stesso Silvio Barbiero. La ‘due giorni’ romana dell’artista rappresenta un evento da segnalare, sia per la stravagante comicità del suo stile recitativo, sia per l’indiscutibile importanza ‘etnologica’ del gergo scelto per esprimersi in scena. Un modo di recitare che richiama la più sana cultura popolare italiana del centro-sud, rivalutando quei valori di spontaneità e ricchezza culturale tipici di una koiné linguistica e fonetica antica e, al contempo, autentica, priva di ogni dissimulazione o ipocrisia. Proprio per il valore culturale del suo lavoro, abbiamo deciso di contattare Silvio Barbiero mentre era in viaggio verso Roma, proveniente da Padova.
Silvio Barbiero, puoi spiegarci, innanzitutto, il valore espressivo e culturale di questo ‘strano dialetto’, che hai scelto di utilizzare per il tuo monologo ‘Groppi d’amore nella scuraglia’? Si tratta di un tuo riadattamento, oppure hai solamente mutuato il linguaggio di Scarpa?
“Il testo, l'invenzione linguistica, tutto è assolutamente mutuato dal genio di Tiziano Scarpa. La nostra è una riduzione della ricchezza del ‘plot’ del racconto, che a teatro rischia d'essere intraducibile. Quindi, per esser ancor più chiaro, ogni singola parola da me pronunciata in scena è fedelmente presa dal testo di Scarpa. Di mio c'è il corpo, che con la sua ricettività mi permette di accedere e interpretare quelle parole”.
La tua è una scelta dettata da logiche etnologiche di valorizzazione di un dialetto popolare, oppure hai voluto trovare semplicemente un modo particolare e divertente di esprimerti sul palco?
“La lingua di Scarpa è un lasciapassare per luoghi altrimenti difficili da esplorare. Ogni attore è alla perenne ricerca di mezzi che lo traghettino verso intensità non quotidiane e la lingua inventata da Tiziano è un potente vettore verso quei luoghi. Il divertimento deriva da questo".
Le vere radici culturali d’Italia, secondo te, sono le nostre tradizioni contadine di un tempo? E perché dovremmo rivalutarle?
“La mia identità culturale è difficilmente riconducibile, se non in modo generico, a tradizioni contadine. Del nostro Paese davvero non saprei parlare: il massimo che mi può capitare è di intuirlo, ma non mi spingerei mai a pronunciarmi su di esso. In tutta sincerità non sento alcuna esigenza di rivalutare alcunché: mi sforzo di alimentare l'esigenza di esperienze che siano intense, che conducano a confronti sinceri, tutto qua”.
La semplicità popolare non è un po’ in contraddizione con la società di oggi, ipertecnologica e modernizzata? Oppure il tuo è un tentativo di strappare le nostre tradizioni più autentiche ai tradizionalisti, che spesso ne hanno fatto un uso soprattutto retorico?
“Nella mia ‘faretra’ ho solo un paio di ‘ideuzze’ e me ne scuso. Scatorchio è un personaggio che non conosce strategie: tra ciò che possiede e ciò che desidera frappone solo l'azione, non il pensiero. La sua analisi della realtà è poetica, non strategica. Non credo che rappresenti un personaggio tradizionale o tradizionalista: è autentico, questo sì, ma la retorica per lui è ‘raglio’ che non credo distinguerebbe da un ‘abbaio’...”.
Il linguaggio da te utilizzato, in molti punti è ‘schietto’, diretto, autentico: come la mettiamo con l’altra ‘faccia’ della ‘medaglia’, cioé con quei retaggi di dissimulazione che rendono gli italiani di oggi un popolo privo di identità?
“Spero di non annoiare, ma quando mi si parla di italiani o europei mi zittisco come di fronte a dissertazioni ‘astrologiche’. Il teatro resta, forse, l'ultimo luogo dove realizzare lo scandalo di un incontro autentico tra esseri umani. Questo mi sforzo di fare, con tutta la fatica che ne consegue. Come avrai capito, mi curo solo degli individui. E, da individuo, parlo e agisco, poiché ad altri individui parlo”.
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