Vincitore del premio della critica di Periodico italiano magazine, 'No! Una giostra sui limiti dei limiti imposti' suggerisce un messaggio libertario imposto dal buonsenso contro i tanti divieti imposti dalla società. Limiti spesso assurdi presenti nelle leggi di numerosi Paesi del mondo. Un testo irriverente e goliardico, molto applaudito dal pubblico, portato in scena da una compagnia di adrenalinici giovanissimi attori
Avete mai fatto caso a quanti divieti dobbiamo sottostare? Molti di essi, oltretutto, sono esagerati, rasentano il ridicolo, eppure hanno un valore legale nelle nostre società. Lo spettacolo messo in scena da Clara Sancricca e il suo collettivo, ha posto in evidenza proprio gli errori di una società strutturata su troppi divieti. Alla fine rischia di crollare su se stessa. In questo senso “No. Una giostra sui limiti dei limiti imposti”, è una rappresentazione geniale in cui sette ragazzi, muniti di corda, tentano di costruire una società in cui i divieti scelti, possano ‘reggere’ insieme. Il crollo inevitabile dimostra che una sana autocritica sarebbe salutare. I primi ad averla fatta sono stati proprio gli attori con la regista, che nella costruzione dello spettacolo si sono accorti di quanti ‘no’ spontanei sono stati in grado di pronunciare. Qui non si vuole prendere in giro nessuno in particolare, se non noi stessi e la paura che qualcosa possa accadere e turbare la normalità. Ecco cosa ci ha rivelato Clara Sancricca, regista dello spettacolo e professoressa di liceo. Allo spettacolo è giunta anche la classe che sta accompagnando agli esami di maturità. Un’esperienza che considera temporanea e che non ha intenzione di ripetere. Anche questa, in fondo, è un po’ una ‘ribellione’ al precostituito. Come se una traccia di leggera anarchia, o comunque di sano rifiuto fosse rimasta in lei.
Come ha preso forma lo spettacolo?
“Mi trovavo sotto la metropolitana e, in attesa che passasse il treno, ho dato un’occhiata al regolamento, in cui c’era scritto: ‘Vietato cantare’. Sulle prime la cosa può anche far ridere, poi ti rendi conto che in qualche modo siamo arrivati a una deriva. Perché se tenti di regolamentare tutto al negativo, poi non sai mai dove puoi arrivare. E ci sarà sempre un comportamento che sfugge alla casistica. Per cui devi creare un altro divieto per la nuova. Ecco che alla fine arrivi al ‘vietato cantare’. È evidente che quella norma cerca di impedire di cantare alle persone che lo fanno ‘di mestiere’. Però allo stesso tempo si traduce in un divieto per tutti. Se canticchio che succede? Da lì siamo partiti e ci siamo accorti di quanti divieti fossero nascosti nel nostro quotidiano. Ci esprimiamo spessissimo in questa forma negativa”.
In effetti citate parecchi divieti. Come li avete trovati?
“Siamo stati bravi. Abbiamo studiato tanto. Per l’Italia, basta considerare quello che è successo col ‘pacchetto sicurezza’ nel 2008, che ha dato ai sindaci la possibilità di legiferare. Per cui, nei vari comuni sono usciti i divieti più assurdi. Tantissimi sono americani, perché, col fatto che da loro vige il common law, qualunque precedente giuridico diventa legge”.
In totale quanti ‘No’ sono pronunciati?
“Mah, ci sono personaggi che in alcune scene si esprimono solo con dei ‘No’. Per cui penso siano un migliaio in totale”.
Quale difficoltà ha incontrato a dirigere sette ragazzi che portano avanti lo spettacolo con grande ritmo?
“È già il secondo lavoro che facciamo così e ci piacerebbe continuare in questo modo. Lavoriamo in maniera collettiva, nel senso che l’opera nasce da una stratificazione di improvvisazioni successive. Ci abbiamo messo un anno a giungere a compimento. In pratica, io dò una situazione, si improvvisa su quella, loro propongono battute. E così, pezzo dopo pezzo, si va avanti. I ragazzi sono bravissimi a mettersi al servizio di una mia idea, ma alla fine della meta ci arriviamo tutti insieme”.
La soluzione ai vari legacci?
“Prendersi cura. Abbiamo scelto questa espressione. Non volevamo che fosse un monito, tipo ‘Abbi cura’. Quella scelto c’è sembrata la più semplice, che in qualche modo neutralizza tutti i divieti”.
Un parere sul Fringe?
“Sapevo della sua esistenza, ma non c’ero mai stata. Il Fringe, a nostro modo di vedere, non è in realtà un evento, come spesso viene fatto passare. Con esso gli organizzatori hanno saputo creare un bisogno. Abbiamo visto la gente recarsi al botteghino per chiedere: ‘che c’è stasera?’, che è una roba che si fa al ristorante! Siamo molto felici di questo”.
Il pubblico vi ha sicuramente premiati. Doppia soddisfazione?
“Abbiamo già un nostro seguito molto appassionato. Però in platea erano molto più dei soliti ‘nostri’. E questo non ce lo sappiamo spiegare. Siamo commossi del gran numero di spettatori. Crediamo ci sia stato un buon passaparola”.
Il pubblico pare vi abbia capito meglio di alcuni critici…
“Nessuno ci ha stroncato. Ma alcuni, pur salvando la regia, la bravura dei ragazzi, ha puntato l’indice sul messaggio che volevamo mandare. Un messaggio che secondo costoro risente un po’ del clima sessantottino. La morale è stata quella per cui i ‘no’ servono, aiutano a crescere. Però è evidente, credo, il nostro intento di giocare col senso comune. Lo diciamo pure nelle note di regia. Si tratta solo di un’autocritica che ci siamo fatti tutti. Io stessa, durante la costruzione dello spettacolo, ho scoperto quanti ‘no’ posso pronunciare. Non volevamo rappresentare nessuna posizione anarchica”.
Però l’anarchia è presente nello spettacolo, lo spieghiamo meglio?
“Certo, ci siamo ispirati anche all’anarchico Kropotkin, che è un po’ il nostro ‘padre spirituale’, se si vuole. Lui dice che puoi fare a meno di regole, solo se hai un esubero di amore e di cura. In genere si parla sempre male dell’anarchia, ma la stessa può essere valida a determinate condizioni. Tutti, ovviamente, abbiamo letto la sua ‘Morale anarchica’. Che è stato uno dei materiali usati nella preparazione. Ognuno portava qualcosa. In una stratificazione di lavoro così lunga, ti puoi permettere di buttarci dentro qualsiasi cosa”.