L’esigenza di ottenere ‘audience’ a tutti i costi spinge determinati personaggi televisivi a ritenersi tali e a compiere stranezze, confermando la sensazione che moltissimi italiani stanno toccando con mano da almeno una ventina di anni a questa parte: quella di un’arroganza puramente funzionale al mascheramento drammatico di un generale ‘vuoto’ di valori e contenuti
Questa storia dei cuochi ‘incazzosi’ sta veramente stancando. Anche perché, visionando i canali satellitari di altri Paesi, ci siamo accorti che i ‘reality gastronomici’ di questo genere, all’estero non sono affatto impostati così: solo qui da noi vige quel pedagogismo esasperato che finisce col ‘cannibalizzare’ la presentazione stessa del cibo al pubblico. Eppoi, anche il luogo comune che considera l’Italia “una Repubblica democratica fondata sulla mozzarella” deve finire: è mai possibile che le tradizioni culturali di una città, di un’area geografica o di una regione debbano identificarsi con quel che si mangia? Gustare un buon pasto è indubbiamente un piacere di per sé: non serve a nulla condirlo con atteggiamenti edonistici. Tra l’altro, questa parola, ‘edonismo’, proviene dal greco e significa: “Ricerca del massimo piacere”. Ma dev’essere il buon gusto di un piatto a donarci questo ‘piacere’, non la falsa trasposizione di ‘sicurezza’ di chi lo prepara o l’abilità di chi lo imbandisce. Nelle cucine dei grandi ristoranti italiani si lavora tanto, spesso fino all’impazzimento: ciò è senz’altro un fatto di cui dover tenere conto. Ma è altrettanto vero che a furia di faticare davanti ai fornelli si finisce col “fare la botta”, come si dice in Campania, o che “schizzi il neurone”, come si è soliti affermare al nord. Ecco: sappiano certi ‘grandi maestri’ della nostra cucina che, messi di fronte a una telecamera, essi danno spesso l’impressione di essere dei ‘fuori di melone’. L’esigenza di ottenere ‘audience’ a tutti i costi spinge, come al solito, determinati personaggi televisivi a ritenersi tali e a compiere stranezze, confermando in tal guisa la precisa sensazione che moltissimi italiani stanno toccando con mano da almeno una ventina di anni a questa parte: quella di un’arroganza puramente funzionale al mascheramento drammatico di un generale ‘vuoto’ di valori e contenuti. Ho letto ‘in giro’ anche le disavventure di alcune colleghe che hanno provato ad assaggiare e a valutare i tanto decantati ‘piatti’ di questi cuochi: hanno finito col dover subire, anche personalmente, bizze e recriminazioni da autentici ‘posseduti’ bisognosi di un esorcismo urgente. E così è iniziata a circolare, all’interno del nostro ambiente, la ‘voce’ secondo la quale certi titolati chef risulterebbero all’oscuro delle regole minime di professionalità che una giornalista è tenuta a seguire nello svolgere il proprio mestiere. Anche perché non c’è nulla di più soggettivo del gusto delle persone: se per qualcuno un ‘cipollotto caramellato’ corrisponde a un ossimoro culinario impressionante e stucchevole, egli ha tutto il diritto di ritenerlo tale e di scriverlo. Questi ‘megachef del piffero’, insomma, non soltanto ignorano i rudimenti minimi di un mestiere che non è il loro - e che dunque dovrebbero ben guardarsi dal giudicarlo, anche per questioni di semplice rispetto verso il lavoro di una persona qualsiasi che esercita una professione - ma anche una profonda maleducazione personale nel relazionarsi con la stampa. L’informazione non è affatto un qualcosa di ‘teatrale’, come molti sono portati a credere. Il mondo del teatro può suggerire delle informazioni (inedite possibilmente, o quanto meno di approfondimento), ma poi quest’ultime debbono essere presentate al pubblico secondo regole che debbono rispondere a criteri di autonomia e libertà di critica: non si può semplicemente esaltare un personaggio e ogni sua azione affinché la più ampia maggioranza di italiani impari finalmente a cucinare “una carbonara da Dio”. Benito Mussolini una volta disse: “Il popolo è femmina”. Ma il fondatore del fascismo, oltre a essere un romagnolo ‘sanguigno’ divenuto dittatore grazie al sostegno di una èlite di ‘scriteriati’, era un uomo che ragionava secondo i più classici parametri del ‘gallismo’ ottocentesco italiano. Giudizi secondo i quali l’homo italicus, per riuscire a dominare l’universo femminile, era tenuto a utilizzare toni e modalità di comunicazione ‘verticale’, dall’alto verso il basso, da essere superiore (l’uomo) a inferiore (la donna). Pertanto, secondo Mussolini, il popolo, messo tutto assieme, non era altro che un enorme agglomerato di ritardati e mentecatti: è questa la considerazione che si possiede del pubblico televisivo italiano? Io non credo. Ma allora, dato che le cose non stanno così e che una buona ‘carbonara’ la possiamo apprezzare in un qualsiasi ristorante della penisola, questi ‘neo-miracolati’ personaggi possono, per cortesia e carità di Patria, accettare una precisa richiesta di abbassamento dei toni dandosi una ‘calmata’? Si richiede ciò anche per un motivo scientifico ben preciso e peculiare: pur lentamente, sotto il profilo pedagogico la nostra cultura media i suoi ‘passi in avanti’, rispetto a una certa ‘Italietta’ degli anni ‘ruggenti’, li ha compiuti da tempo. E se qualcuno vi ha detto il contrario, spiegandovi il principio che sembrando ‘incazzati’ in televisione si ‘buca’ lo schermo, fateci un piacere: dategli del cretino.