Perché un vino deve avere ‘sentori di more’ o richiami di rosa e ciliegia? Proprio un critico, Marco Lombardi, si è ribellato al linguaggio “preconfezionato” dei colleghi “in nome di una presunta oggettività del comunicare” che condiziona forse troppo il gusto. La soluzione? Cinegustologia: descrivere un film attraverso un piatto o un vino e viceversa
Indovina chi viene a cena? La domanda, lo avranno intuito in molti, è anche il titolo del noto film di Kramer e ci offre il là per lanciare l’argomento, anzi, gli argomenti: cinema e gusto. Il film citato, per esempio, vi è piaciuto? Ragioniamo in termini di piacere tanto per le pellicole che per il cibo o il vino, adottando termini di paragone che spesso mutuiamo da un’altra sfera di appartenenza, generando accostamenti a volte impropri, per non dire bizzarri. Salta fuori così, per esempio, che un Kill Bill di Tarantino sia troppo crudo. Già, crudo (perché non usare il più semplice violento?). Crudo come cosa però? Il pesce crudo, al contrario, non è violento (salvo che non sia vivo, in mare aperto e si tratti di uno squalo) e spesso piace e si digerisce bene (se fresco). È certo che non si vuol dire che Kill Bill sia un film fresco e digeribile, anzi. Eppure la critica parla di crudo proprio per avvisare lo spettatore e dirgli: stai attento, film a bassa ‘digeribilità’. Anche un’altra critica, quella enogastronomica, non è da meno. Il naso (non solo quello) di un critico che si infila dentro un calice riesce a ‘vedere’ e sentire l’impossibile per noi comuni mortali. E nel tentare di istruirci, forse – e sottolineo forse – giocano con le parole per facilitarci, inventandosi un linguaggio tutto loro che da anni ormai anche la satira prende in giro. Per carità: adesso non si vuol sostenere che i signori critici stiano lì a compiacersi sul senso intrinseco delle loro parole, ma ogni tanto dovrebbero darcene atto, se come consumatori, di fronte a un buon bianco di cui si legga: “persistente ritorno di albicocca”, riponiamo la bottiglia sullo scaffale, spostandoci al reparto ‘frutta e verdura’, alla ricerca di quell’albicocca che ‘non ritorna’ e non lo farà mai. A meno che - questa si che ci sembra una ‘cruda’ verità - non ci lasciamo trasportare dalla poesia di certe frasi, ‘evocandola’ sul serio l’albicocca e poi probabilmente ‘bilocandola’ nel vino. Miracoli del gusto. C’è però un altro ‘luogo’ che noi (comuni mortali) usiamo sempre e loro (i guru eno-cine-gastronomici) tendono a ignorare. Un luogo in cui in fondo (è il caso di dirlo, in fondo) digeriamo (avete capito bene: di-ge-ria-mo) tutto: cibo, vino e sinesteticamente la celluloide. Di quale luogo stiamo parlando? Semplice: la pancia. Fateci caso: spesso siamo indotti a ‘digerire’ un film in un certo modo. Quello trasmessoci dalla critica, attraverso le sue ormai consuete categorizzazioni. Il linguaggio che usano i critici, a volte, pieno di riferimenti ‘gustosi’ ci pervade l’organismo e ci scombussola la corretta digestione. Per cui se alla nostra pancia non è andato giù un capolavoro di Fellini, dobbiamo prenderci la pastiglia di diger ‘critico’ seltz’ e tutto poi andrà giù meglio. Detto in altri termini, è in corso un’operazione sottile, volta a “inibire il libero sentire”. A dirlo, finalmente, non è uno qualunque, ma ‘uno di loro’, sissignori, un critico. Si tratta dell’inventore della teoria della Cinegustologia: criticare un film come ‘se fosse’ un piatto o un vino. Ovviamente attraverso questo gioco del se fosse, si può partire da un film, o da un piatto o un vino, per finire sinesteticamente ad associarlo a uno dei tre. Geniale, semplice e divertente, la sua idea. Stiamo parlando di Marco Lombardi, esperto di tavola e di cinema per “Il Messaggero” e “Il Sole 24 Ore”. Lo abbiamo incontrato in un luogo affollato del centro di Roma, un posto giusto, un bar/tavola calda, nell’ora giusta, quella del pranzo. Tra un sorso e un boccone, ci ha raccontato cos’è, cosa potrebbe essere e soprattutto cosa non è la sua Cinegustologia, con buona pace di qualche critico ‘rosicone’, incapace di aprire una nuova porta per una temporanea passeggiata ‘laterale’ lungo le consuete vie del gusto.
I presupposti ci sono tutti: liberarci dai condizionamenti. Marco Lombardi, trova davvero che il pubblico sia così condizionato/condizionabile?
"Rispondo con un titolo di un film: “Mondo Vino” in cui trovi proprio la denuncia – in questo caso della critica enologica - di come si possa condizionare il gusto e di conseguenza anche il mercato. Per fare un esempio: quando anni fa scoppiò la moda del vino barricato e tanti critici scrivevano poi sempre la stessa cosa, tessendo le lodi dei vini invecchiati in piccole botti, certamente influenzavano il gusto. Chiaro che il vero obiettivo è condizionare il mercato, però prima di fare questo si condiziona il gusto. Da questo punto di vista la libertà è un punto d’arrivo, una conquista, soprattutto nel mondo della comunicazione in cui viviamo”.
Quale motivazione l’ha spinta a distaccarsi un po’ dal linguaggio dei suoi colleghi?
"È esattamente quello che dicevo: io continuo ancora a scrivere di cinema e di tavole per le riviste del settore nella piena ‘ortodossia’, ma mi rendo conto io stesso, proprio sulle cose che scrivo, che nel momento in cui ci si impone di seguire degli schemi strutturalisti di critica, si è innanzitutto costretti, poi si finisce per dire un po’ tutti quanti le stesse cose. Quando si legge della commedia sexy all’italiana, che negli anni ’70 era considerata, forse giustamente, un genere di ‘serie Z’ e improvvisamente oggi diventa un genere ‘autoriale’, ti accorgi che questi sono quei ‘deliri’ che rivelano il bisogno di distinguersi e non omologarsi. Lì allora stai prendendo una strada sbagliata o comunque provocatoria ed estrema. Alla fine però finisci sempre in certe categorie, le solite, ormai consumate, usate, lise, che vogliono dire veramente poco. Come quando nella cucina si parla di tradizione o di innovazione”.
Dica la verità: un po’ i critici, cinematografici ed enogastronomici, ci ‘marciano’ con quel modo di parlare, descrivendo un film o un piatto mutuando il linguaggio di altri campi. Oppure sono sul serio spinti e persuasi che solo in quel modo il pubblico possa capire meglio?
"Tutte le semplificazioni sono più facilmente comunicabili, almeno apparentemente. Certo, occorre una sorta di ‘codice universale’ altrimenti ognuno si parlerebbe addosso. Anzi, più è condiviso maggiori sono le possibilità del comunicare. Nel momento in cui si dice, tornando a un piatto, che è della tradizione – a parte che, come dicevo, ormai non vuol dire più nulla, perché tutto è rielaborato e tutto è tradizione allo stesso tempo, quindi è una di quelle categorie vuote – si offre almeno l’illusione che in quella data trattoria potrò trovare la ‘cacio e pepe’ o la ‘coda alla vaccinara’ come si faceva una volta. Quindi non è che io con la Cinegustologia voglia fare una rivoluzione copernicana. A parte che ha un aspetto anche ludico, ironico e autoironico, a dispetto del resto della critica che spesso si prende troppo sul serio, però almeno cerco di scardinarne gli integralismi, ecco”.
Ma così non corre il rischio di farci uscire un po’ troppo dai binari? Nel senso: un critico è un esperto della materia, il profano no, non ha ‘autorità’ per definire un Brunello. Oltretutto, se lo accostasse a un evento della propria vita, sarebbe la ‘sua’ definizione di quel vino Sarebbe una critica come dire, ‘senza riscontro’. È corretto secondo lei? Lo chiedo al critico.
"Intanto con la Cinegustologia torniamo a un linguaggio della critica in maniera più consapevole e non ci prendiamo troppo sul serio, perché capiamo che non stiamo parlando del ‘senso della vita’. Ma anche quando queste cose assumono un’importanza di un certo tipo, dobbiamo capire che in quest’altro modo possiamo trovare una ‘via laterale’ per colorare quello che sentiamo, che ci dice la ‘pancia’. Quindi l’obiettivo è: uscire dagli schemi, prendere una boccata di ossigeno e poi ritornare agli schemi ma con un altro approccio. Con un disincanto, con la consapevolezza che la critica, diciamo ortodossa, non sia la verità assoluta. Ogni tanto dovremmo quindi avere la capacità di aprire una finestra e tirare fuori un ‘sentire soggettivo’ che però deve avere anche una sua cornice”.
Intende dire che la Cinegustologia potrebbe avere un certo grado di attendibilità?
"Potrebbe avere un suo linguaggio, al di là della dose di libertà e di anarchia positiva, evitando di dire una cosa che sia poco comunicabile, ovvero che ognuno dica la sua, “senza riscontro” come diceva lei prima”.
Entriamo nel dettaglio. Il ‘gioco’ è interscambiabile: parto dal piatto per arrivare al film o viceversa. Facciamo una prova, ci sta? Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, che mi dice?
"Allora, due cose: intanto il processo dovrebbe essere ‘live’, devo poter ‘vedere’ in questo momento, perché le emozioni sono istantanee, quindi preciso che il ‘giochino’ ora lo possiamo fare, ma, appunto, precisiamo che di un giochino si tratta. Perché altrimenti torniamo agli schemi astratti, ai vincoli e ai problemi del linguaggio di cui abbiamo finora parlato. Come dicevamo prima, questo metodo cinegustologico è più libero, ma proprio perché privo di certi vincoli codicistici, lo dobbiamo un minimo ‘ingabbiare’.
E poi l’altra cosa: io non utilizzo mai nelle dimostrazioni, nelle cene che organizzo, film che parlano di tavola, altrimenti si potrebbe creare confusione. Ora, forse per combinazione, è stato citato un film in cui succede il contrario: quei “pomodori verdi fritti” possono farti immaginare un tuo profumo. E l’olfatto è uno dei sensi che maggiormente riesce a veicolare un ricordo . Paradossalmente quel film lega vista e udito, evocando proprio l’olfatto e attraverso questo, poi, il ricordo”.
Ci riprovo: il suo vino preferito? Se lo preferisce, l’associazione cinegustologica le dovrebbe rimanere in mente, no?
"Tra i bianchi preferisco il Riesling renano, oggettivamente – lo dicono in tanti – uno dei grandi vitigni del mondo. In termini ‘astratti’, pur essendocene alcune varietà, mediamente è secco, di grande acidità, con un livello zuccherino quasi pari a zero. Invece, il mio giudizio ‘sinestetico’ me lo fa accostare alla struttura della commedia all’italiana, quella di Monicelli, che ha una sua ‘aromaticità’ esterna, che, per esempio, in un film come Amici miei - che sembra un film comico, ma in realtà a me sembra molto tragico - copre quello che c’è dietro. Poi Monicelli mi sembra possedere una fortissima acidità e, infine, l’assenza di zuccheri: apparentemente sembrano presenti, ma si tratta appunto solo di aromi, come dicevo”.
Il giudizio dei suoi colleghi sulla Cinegustologia?
"Quando c’è un’innovazione, ci sono sempre delle resistenze, per cui qualcuno, ‘rosicone’, vive questa novità come un attacco alla propria posizione, nonostante io porti avanti quest’esperienza senza pretese, anzi, in maniera assolutamente autoironica. Qualcun altro dice ‘Si’ o ‘No’, però noto che c’è sempre più bisogno di ‘aprire quella finestra’.
Ringraziamo Marco Lombardi per la ‘gustosa’ chiacchierata, in cui abbiamo intuito che probabilmente ha ragione lui quando sostiene che c’è voglia di liberarsi ogni tanto da certi schemi che etichettano una pellicola, per esempio una di Tarantino, troppo ‘cruda’ e sanguinolenta. “Tarantino ‘crudo’? Semmai io direi ‘iper-cotto’”. Ci consiglia di andare a rivedere in Pulp Fiction la scena famosa della falsa citazione biblica, in cui per altro il dialogo verte su un hamburger “stra-cotto e stra-condito”. Ecco, appunto: parola di critico cinegustologico, parola di ‘pancia’.
Chi è Marco Lombardi
Torinese, un bel giorno ‘esce’ definitivamente dall’azienda in cui lavorava come direttore del personale, un compito forse noioso, troppo ‘negli schemi’. Oggi collabora per “Il Messaggero”, “Il Sole 24 Ore” e “Il Gambero Rosso” come critico enogastronomico, prodigandosi più liberamente per le sue passioni: cibo, vino e cinema. Da qualche anno le va mescolando assieme tutte quante. Nasce la Cinesgustologia: “Un modo per vivere la tavola in maniera emotivamente libera attraverso spontanee associazioni con il cinema”. Su questa teoria ha pubblicato anche un libro: "Cinegustologia. Ovvero come descrivere i vini con le sequenze della settima arte" edito da Il Leone Verde. Diffonde il suo libero pensiero in degustazioni ‘cinegustologiche’ organizzate in tutta Italia e insegnando alla Scuola Nazionale di Cinema di Milano e all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. È il fondatore della casa di produzione cinematografica Grillo Film. Per ulteriori informazioni potete visitare il sito www.cinegustologia.it e la pagina facebook www.facebook.com/cinegustologia