Continuare a ritenere la violenza sulle donne una sorta di ‘riempitivo giornalistico’, attuato dagli organi d’informazione per motivi di carenza delle notizie, si sta rivelando un esempio di cinica ipocrisia, che consente una grave minimizzazione del fenomeno e l’abbandono delle donne sulla frontiera del contrasto agli abusi
Dopo i recenti fatti di San Lorenzo, il quartiere di Roma in cui è stata stuprata e uccisa una giovanissima sedicenne della provincia di Latina, diviene urgente cercare di comprendere a che punto siamo arrivati nella nostra riflessione giuridico-dottrinaria e a quali risultati è pervenuto il legislatore sul fronte dei diritti delle donne nella lotta al ‘femminicidio’. Le premesse e le fonti giuridiche per riflettere sul ritardo italiano intorno a tale gravissima questione si ricollegano a una fattispecie di reato fortemente legata a concezioni sub-culturali e, soprattutto, all’assenza, a lungo protrattasi nel nostro Paese, di strutture d’incontro con soggetti posti e aperti all’ascolto. Una buona iniziativa giuridica di questi ultimi anni, rivelatasi un primo vero rimedio giuridico preventivo contro tali manifestazioni delittuose, è stata fornita dalla ‘querela per stalking’, oggi divenuto un conclamato mezzo per permettere di ottenere una ‘libera distanza’ in situazioni compromettenti e, più in generale, in ogni tipo di relazione. Gli sforzi legislativi e parlamentari più recenti hanno dunque confermato la volontà di contrastare il fenomeno da parte del legislatore, pur riscontrando una certa difficoltà nel riuscire a individuare e distinguere la moltitudine di episodi, soprattutto domestici. E’ dunque necessaria una comparazione tra modelli legislativi diversi a livello internazionale, per meglio comprendere come si sono regolati gli altri Paesi in merito a problematiche di questo genere e tipo. Innanzitutto, il termine ‘femminicidio’ è stato coniato dall’antropologa messicana Marcela Lagarde sulla base di esperienze testimoniate dalle donne messicane, marginalizzate da una cultura fortemente machilista di quel Paese. In seguito, la teoria utilizzata dalla professoressa Lagarde ha cominciato finalmente a racchiudere tutto un insieme di comportamenti, indulgentemente protratti nella cultura dominante, di discriminazione sessista o di consuetudine maschile privilegiata, sia in ambito pubblico, sia privato. Nonostante tali contributi, dobbiamo cominciare a fare uno sforzo ulteriore ponendo in relazione la diverse tipologie di reati rilevati statisticamente, con i delitti e le testimonianze straniere. Le risposte fornite dal ‘Comitato Cedaw’ hanno senz’altro proposto dinamicamente un sistema di raccoglimento sia dei dati, sia dei fenomeni. A dar vigore alle normative di contrasto è stato l’apporto della Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia il 19 giugno 2013 dopo l’approvazione del Consiglio d’Europa, avvenuta il 7 aprile 2011. Tale Convenzione aveva certamente lo scopo di contenere i fenomeni dilaganti, ma soprattutto ha avuto il merito di aver ampliato la tutela dell’universo femminile sul fronte della prevenzione degli atti di violenza domestica, la penalizzazione dei matrimoni forzati, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto e la sterilizzazione forzata. La lotta alla violenza sulle donne non può più essere considerata una banalizzazione, o una riduzione del fenomeno a semplice ‘invenzione mediatica’. La cooperazione nel manifestare quotidianamente e a voce aperta ogni atto o fenomeno criminoso costituisce la base di un dialogo diretto con i cittadini, al fine di trovare la soluzione di ogni caso specifico di abuso relazionale. Anche la diffusione di strutture e centri d’ascolto avvenuta in questi ultimi anni hanno rappresentato un buon presupposto per l’ampliamento e la ‘dilatazione culturale’ della concezione di persona in quanto donna: un forte tentativo di superamento di ogni tipo di limite ‘claustrofobico’ dilaniante. L’analisi di ricerca ‘Innocenti’, completata dall’Unicef grazie alle esperienze documentate nelle aree ad ‘alta incidentalità’ (Senegal, Egitto, Kenya e Sudan), ha evidenziato i diversi piani d’azione nazionali e contestuali. In Sudan, per esempio, l’infibulazione è macabramente una delle pratiche maggiormente diffuse sulle donne tra i 15 ed i 49 anni. Con l’espressione ‘escissione/mutilazione genitale femminile’ si è cominciato a comprendere meglio una consuetudine regolarmente praticata presso i Saninika e i Mantingo, ma assai meno diffusa presso i gruppi etnici minori. Le percentuali messe a confronto hanno infatti rivelato che quasi tutte le donne a conoscenza della pratica non solo la concepiscono, ma addirittura intendono trasmetterla da madra in figlia in quanto socialmente consentita, nonostante sia diventata ufficialmente illegale e giuridicamente considerata un reato punibile. La legge ha inserito tale pratica all’interno di un contesto più ampio di prevenzione e di tutela delle donne. Per esempio, attraverso il ‘Programma di Empowerment’ è importante segnalare l’azione dell’Ong ‘Toston’: la prima organizzazione ad aver incorporato in maniera sistematica un approccio basato sui diritti umani nei programmi comunitari rivolti verso il Senegal, mediante una serie di corsi tenuti nelle lingue locali e utilizzando elementi delle tradizioni culturali, tra cui canzoni, danze, proverbi e rappresentazioni teatrali. Continuare a ritenere questa tematica una sorta di 'riempitivo giornalistico', attuato dagli organi d’informazione per motivi di carenza delle notizie, si sta rivelando un esempio di cinica ipocrisia, che consente una grave minimizzazione del fenomeno e l’abbandono delle donne sulla frontiera del contrasto agli abusi. Si tratta, invece, di fatti gravissimi, in cui anche l’universo maschile è chiamato a battersi con ‘partigianerìa’, evitando ogni ‘chiusura’ verso concezioni culturalmente incivili o giudizi che tendono a distinguere gli abusi in base a criteri nazionalistici, etnici o puramente 'snobistici'. L’internazionalizzazione della lotta di contrasto e di prevenzione è, invece, un passo che bisogna compiere, al fine di riuscire a incidere più efficacemente sulla questione segnando un confine giuridico più evidente, nonché impedendo ogni arretramento basato intorno a giustificazioni e suggestioni ‘filo-etniche’. Solo uno sguardo più ampio può rendere maggiormente consapevoli le donne stesse della loro condizione e dei loro ‘recinti’ consuetidinari, spesso di natura tribale. Anche a costo di rinverdire i ‘fasti’ di un femminismo ideologico che, liberatosi dalle forzature rivoluzionarie e deterministe degli anni ’70 del secolo scorso, può ripresentarsi sulla scena con iniziative preziose, apportando un contributo rinnovato nell’estirpare le radici più profonde di questo genere di ingiustizie, al fine di riconsegnare al mondo una femminilità divenuta ‘avanguardia’ nel processo di modernizzazione e di avanzamento civile dell’umanità.
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