La vicenda di Ahmed Musa dovrebbe farci riflettere sul valore aggiunto che l’immigrazione, in realtà, rappresenta per la nostra società: un arricchimento regolarmente oscurato da polemiche puramente strumentali
Ahmed Musa, 32 anni, nato a Entkena, in Sudan, è sfuggito al carcere perché, considerato morto, era stato abbandonato in un campo dove lo hanno trovato e soccorso dei contadini. Da allora fino al suo arrivo in Italia sono passati cinque anni, tre dei quali trascorsi in Libia. Prima che i miliziani filogovernativi attaccassero la sua città, si era laureato in Economia a Khartoum, dove insegnava e si era sposato con una collega, oggi rifugiata in Norvegia. Sbarcato a Lampedusa nel 2011 senza documenti, si è laureato nei gironi scorsi a Torino con una tesi sui diritti umani in Darfur, l’area dalla quale proviene e dove è stato incarcerato e privato della nazionalità dopo la tortura e l’uccisione del padre e di sei fratelli. I suoi primi giorni nel capoluogo piemontese li ha passati dormendo nella stazione di Porta Nuova. Oggi, Ahmed Musa vive al Collegio universitario e punta al dottorato. Ha lo status di profugo e un figlio piccolo, che ha chiamato Nelson Mandela. “Lo studio”, spiega Musa, mentre attende di entrare a discutere la tesi, relatrice Valentina Pazè, “è un mezzo per dimostrare che nessuno può distruggere la volontà di un altro. Con lo studio, come mi hanno insegnato i miei genitori, puoi cambiare la vita tua e quella degli altri. Ecco perché ho fatto questa scelta: è stato difficile, ma qui mi trovo benissimo. Sono fuggito da una guerra e ora sono una persona normale. Attraverso lo studio”, aggiunge, “cerco di dare il mio contributo per migliorare ciò che mi circonda. Il mio modello è Mandela: vorrei diventare come lui e lavorare per portare la pace ovunque, non solo in Darfur. Mi sento un membro attivo della comunità e vorrei continuare a studiare, fare il dottorato e poi diventare un professore, per insegnare come si devono rispettare i diritti degli uomini. Vorrei restare in Italia”, sottolinea Musa, “poiché qui mi sento a casa, tanto che, quando vado da mia moglie in Norvegia, parto carico di pasta, pesto, e caffè”. La tesi ‘Human rights in Darfur’ affronta un conflitto fra i meno studiati: le condizioni di caos e di violenza nell’area sono, infatti, tali da rendere impossibile la ricerca empirica. “Il documento”, hanno sottolineato i relatori, “assume un valore di aprticolare importanza anche come testimonianza”. La dissertazione è stata scritta in inglese e discussa in italiano, ottenendo un punteggio di 90/110. Il quadro che ne emerge è quello di un genocidio, portato avanti per realizzare una pulizia etnica ai danni delle popolazioni non arabe.
NELLA FOTO QUI SOPRA: AHMED MUSA MENTRE SFOGLIA LA SUA TESI DI LAUREA
IN APERTURA: IL GIOVANE SUDANESE MENTRE RICEVE I COMPLIMENTI DEI RELATORI
AL CENTRO: UNA CARTINA DEL DARFUR
*Giurista d'impresa
Mediatore Civile Professionista
Cultrice di diritto civile
Presidente nazionale APM
A.D.R. & Conflict Management
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