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4 Dicembre 2024

Analisi di un fallimento

di Vittorio Lussana
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Analisi di un fallimento

Il nostro Paese possiede un apparato burocratico, nazionale e locale, costoso e inefficiente. Uno dei problemi da porsi immediatamente sarebbe perciò quello di convenire attorno a una serie di cattive gestioni locali di enti e servizi che hanno reso l’Italia, agli occhi del mondo, una vera e propria ‘barzelletta’. La funzione amministrativa, nel nostro Paese, viene svolta con regole vecchie o mediante rigidità a cui si accompagnano improvvisazioni e veri e propri sprechi. Molti esempi negativi di mal funzionamento e di cattiva gestione sono sotto ai nostri occhi. Il processo di rinnovamento che ha impegnato la pubblica amministrazione in questi ultimi quindici anni si è caratterizzato per una cattiva ‘aziendalizzazione’ dei diversi soggetti interessati, in particolar modo attraverso una separazione tra poteri di indirizzo e poteri di gestione che hanno sostanzialmente mancato proprio quegli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità che si erano proposti. Attraverso la misurazione dei risultati, sia in sede di programmazione, sia di monitoraggio, della gestione degli enti pubblici locali, nonché mediante la loro rendicontazione, ci si è resi conto che determinate conoscenze acquisibili servivano non solo a soggetti terzi o alla gestione amministrativa medesima, ma soprattutto alle diverse articolazioni della società civile e dei cittadini: in pratica, non si è fatto altro che scoprire ‘l’acqua calda’. La logica economico-aziendale all’interno della quale ci si era mossi non è stata quella di nuove forme di organizzazione basate su team o squadre di lavoro più efficienti, ma si collegava direttamente a una riflessione ben nota: quella che ha teorizzato una sostanziale assenza di un sistema di mercato che imponeva forme diverse di competizione all’interno dei distinti enti amministrativi, fra i diversi responsabili della gestione e tra gli enti stessi, sulla base di un sistema informativo che avrebbe dovuto fornire concrete e confrontabili conoscenze nella direzione dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità. In base a tali assunti, il controllo sociale che si sarebbe dovuto determinare doveva sostituire, in un certo senso, il mercato, in particolar modo sotto il profilo della creazione di condizioni alternative di competitività. Ebbene: tutto questo non si è mai realizzato. Un colpevole ricorso a discutibili società di gestione esterna di molti servizi, insieme ai tanti consueti vizi del nostro tessuto amministrativo, hanno finito col portare il sistema nel suo complesso all’orlo del collasso, senza fargli raggiungere gli obiettivi di innovazione e di efficienza auspicati. Indubbiamente, è assai difficile far funzionare una macchina amministrativa assai complessa come quella composta dalle diverse articolazioni dello Stato. Tuttavia, una subdola mentalità che concepisce la funzione amministrativa non come un mezzo per ottenere finalità pubbliche, ma come semplice fine per l’occupazione di posizioni di rilievo o per la sponsorizzazione di determinati soggetti privati, spesso per scopi inconfessabili, ha sostanzialmente reiterato vecchi vizi clientelari, generando una ‘strana’ forma di economia basata su amicizie e relazioni, ‘furbetti del quartierino’ e ‘palazzinari’ i quali hanno imperversato nella corsa ad aggiudicarsi i più appetitosi appalti pubblici. Ogni antico valore di servizio da offrire alla collettività, ogni ideale di seria lealtà istituzionale è crollato definitivamente. Era questo ciò che doveva fare la seconda Repubblica, quella che si doveva liberare dalla partitocrazia e dall’iperpoliticizzazione? Proprio in questi ultimi anni, ci siamo ritrovati ad affrontare una lunga crisi recessiva che avrebbe dovuto imporre al nostro ‘sistema – Paese’ una forte stimolazione pubblica, al fine di incentivare investimenti strutturali. Non siamo finiti nei guai, ma non siamo nemmeno stati nella condizione di poter approfittare della situazione a causa della gravissima arretratezza e inefficienza della nostra macchina burocratico–amministrativa. Siamo rimasti sostanzialmente immobilizzati dal nostro enorme debito pubblico, che priva gli enti locali della possibilità di compiere quelle funzioni di stimolazione e di intervento necessarie affinché il tessuto economico reagisca ad una crisi deflattiva assai profonda. L’apparato dell’amministrazione pubblica rimane inefficiente e scarsamente innovativo, lento a recepire le richieste che provengono dall’esterno, mentre la funzione politica di indirizzo stimola poco e male l’iniziativa privata a cimentarsi in iniziative coraggiose, in grado di generare nuove forme di occupazione e fornire risposte innovative ai bisogni della collettività. Il Paese, in buona sostanza, sotto il profilo della modernizzazione cresce poco, lentamente e con costi troppo alti, con regalìe, clientelismi e relazioni assai discutibili tra istituzioni e imprese. La fotografia che ne esce è impietosa: una macchina ingessata che non solo non tutela più nessuno, ma che non è più in grado di garantire veramente alcunché. La privatizzazione di molti enti municipalizzati è stata eseguita con risultati opinabili. Lo Stato dovrebbe essere più snello e svolgere una funzione di coordinamento e di controllo nel nome e all’interno di un’etica pubblica che, tuttavia, rimane un concetto misterioso proprio nella mentalità di chi spesso è chiamato ad operare tali mutamenti. I tempi di ogni risposta concreta da fornire alla domanda di maggiore efficienza proveniente dalla cittadinanza rimangono disastrosi. E ciò a causa sia di una sostanziale rigidità burocratica, sia di una ‘casareccia’ mescolanza tra interessi pubblici e privati. Non c’è nulla da fare: il nostro rimane un Paese ‘arlecchinesco’ e confusionario in tutto ciò a cui tenta di porre mano. I vari casi di vera e propria vessazione della cittadinanza sono sotto gli occhi di tutti. Tutto ciò non può che generare degrado e sfiducia. Ed è in questo scenario che, all’improvviso, sorge la domanda delle domande: siamo veramente sicuri che la risposta migliore per far fronte a un simile problematico contesto debba essere di carattere prettamente formale? Siamo certi che la tanto decantata ‘svolta federalista’ sia quella veramente in grado di invertire la tendenza di una macchina burocratica assai lesta nel colpire la cittadinanza, ma altrettanto lenta nel fornire servizi efficienti e un effettivo progresso territoriale e di vivibilità ambientale? La questione non è di semplice soluzione, poiché discende da questioni che sono soprattutto di natura politica, incancrenitisi in un Paese che ha sostanzialmente rinunciato alla politica e che ancora stenta a rendersi conto di essere finito direttamente dalla ‘padella’ nella ‘brace’. Ma un Paese composto di caste, ‘controcaste’, conventicole, famiglie e famigliole, compagni di ‘merenda’, mafie e mafiette è effettivamente in grado di cogliere le possibilità migliori da una futura mutazione in senso federale della forma di governo dello Stato? Le grandi riforme che ci vengono servite come la panacea di tutti i mali, se non saranno inserite in un quadro giuridico, etico e civico ben preciso porteranno solamente ad una definitiva ‘deistituzionalizzazione’ della nostra amministrazione pubblica, alla definitiva deriva utilitaristica e privatistica della nazione. Il problema della futura riforma federale dello Stato, perciò, non può che passare dall’individuazione del nuovo ruolo che lo Stato stesso dovrà avere. E che non può essere riassunto nella semplice formula della sussidiarietà alle autonomie territoriali.


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
Registrata presso il Registro Stampa del Tribunale di Milano, n. 345, il 9.06.2010.
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