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4 Dicembre 2024

Noio volevan savuar di quale lingua morire

di Gaetano Massimo Macrì – gmacri@periodicoitalianomagazine.it - Twitter @gaetanomassimom
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Noio volevan savuar di quale lingua morire

Migliora la conoscenza dell'italiano, scompaiono i dialetti e le lingue straniere restano un problema, malgrado l'inglese sia una sorta di 'passepartout' per accedere al mondo del lavoro

La celeberrima gag di Totò e Peppino, fotografava un’Italia che mostrava ancora i segni evidenti  dell’arretratezza socio culturale in cui versava dopo la guerra. Al di là dei sorrisi di quelle battute, buona parte degli italiani non era avvezza all’uso corretto della lingua madre, figurarsi di un idioma straniero come l’inglese. I tempi cambiano, però, e da allora qualche passo in avanti è stato compiuto. Gli ultimi dati statistici mostrano un miglioramento nell’uso dell’italiano negli ultimi anni. Secondo il più recente sondaggio Istat sull’argomento (2014), oltre 23 milioni di italiani nel 2012 parlava correttamente la propria lingua, senza ricorrere a forme dialettali. si tratta del 53,1% delle persone tra i 18 e i 74 anni. Chi, sempre secondo la medesima fascia, ha ricorso al dialetto è il 9% (quasi 4 milioni). Si tratta di numeri legati all’uso dell’italiano in ambito familiare. Parlare con gli estranei, stando ai dati, ci ‘costringe’ a un uso comunque più consono del nostro idioma. In generale, le donne si sforzano più degli uomini, tanto in ambito familiare che tra amici. La vera linea di demarcazione la fa, com’è ovvio che sia, il titolo di studio, ma anche la collocazione territoriale. La differenza è enorme, infatti, tra chi ha la licenza elementare (il 24,3% di costoro si esprime prevalentemente in dialetto) e la laurea (solo l’ 1,7%). Nel Sud, in famiglia, prevale l’uso misto di dialetto e italiano per il 44,7% dei residenti, mentre solo il 38,8% si esprime usando l’italiano, contro, per esempio, il 69,5% dei residenti del Centro.
I dati però sono meno confortanti per quanto riguarda la conoscenza e l'uso delle lingue straniere: il 58% degli italiani (sempre fascia 18-24) ha dichiarato di essere a conoscenza di una lingua straniera: il 43,7% l’inglese, il 21,7% il francese. Anche in questo caso il Centro e il Nord-Est ‘funzionano’ meglio del Sud. Resta comunque bassa la percentuale di italiani in grado non solo di comprendere le espressioni più comuni di un’altra lingua (28,6%), o di comunicare in modo abbastanza fluente (25%), perchè solo il 15% si sente ‘padrone’ di un altro idioma diverso da quello della lingua madre. Se si restringe la fascia analizzata, però, e si analizza quella giovane, compresa tra 18-24, si tira un sospiro di sollievo: 4 ragazzi su 5 parla e comprende l’inglese. Merito, sicuramente, della scuola e dei mezzi di comunicazione (social media, smartphone…).
Veniamo, ora, a uno studio molto particolare condotto da EF (http://www.ef-italia.it/epi/) una società che da anni si occupa di vacanze-studio all’estero, che ha stilato una classifica di Paesi, mettendoli in relazione al livello di competenza della lingua inglese. Ebbene, l’Italia è situata al 27° posto su 63 (20° su 24 se si considera solo l’Europa), appena sotto il Giappone. Secondo la speciale graduatoria, la nostra conoscenza dell’inglese sarebbe di “livello medio” e si consideri che i livelli si dividono in “alto”, “buono”, “medio basso” e “molto basso”. Da questo punto di vista, i più ‘competenti’ risultano essere i danesi, seguiti dagli olandesi e dagli svedesi. Fanalino di coda è l’Iraq. Dunque, fortunatamente non rientriamo negli standard qualitativi piuttosto bassi di Medio Oriente e America Latina, ma non spicchiamo nemmeno tra i paesi europei che possono fregiarsi del livello “buono” o “alto”. Insomma, non sfiguriamo, ma neppure possiamo menar vanto. In ogni caso, sempre secondo lo studio EF EPI, l’Italia dal 2007 ha fatto progressi, in linea con altri paesi europei che hanno fatto altrettanto, migliorando la competenza media dell’inglese di 3,59 punti. Uno dei paesi in cui si è verificato un netto miglioramento è la Polonia (9,64 punti). Probabilmente le riforme in campo scolastico (ma non solo in quello) condotte negli anni ’90 e 2000, oggi permettono di raccogliere qualche frutto. Quel piano riformista, oltre ad aver portato la Polonia ad avere uno dei maggiori tassi di crescita del Pil d’Europa, ha fornito un’iniezione di fiducia, che col tempo ha accresciuto il numero di studenti universitari, creando una forte disponibilità alla mobilità lavorativa e una grande apertura all’esterno, traducibile anche in una migliore conoscenza della lingua inglese. Il senso di tutto questo sembra evidente: chi investe nell’istruzione, specie nell’inglese, può godere di un considerevole ritorno economico.
Per la serie ‘l’erba del vicino è sempre più verde’, sfatiamo un luogo comune. Perché se sull'inglese noi italiani andiamo 'benino',  i nostri cugini francesi sono ancora più scarsi. Lo conferma sempre la ricerca EF, secondo la quale tra i genitori d’oltralpe vi è la convinzione che si possa imparare l’inglese solo se si è dotati della possibilità (economica) di viaggiare. Secondariamente, mancherebbe un sistema scolastico adeguato alle esigenze di implementare l’uso delle lingue straniere. Insomma, paese che vai…

Lingue locali: ne scompaiono 2 al mese
Se l’uso dell’inglese all’interno di una popolazione, simbolicamente può essere considerato come un misuratore di crescita socio-culturale, un indice di apertura al mondo esterno, con la possibilità di creare nuove relazioni e scambi commerciali più facilmente, ergo: ricchezza, l’uso del vernacolo, al contrario, nel suo significato più ‘nobile’ potrebbe rappresentare un pezzo di tradizione da salvaguardare. Tanto è vero che le Pro Loco d’Italia hanno lanciato un allarme: ogni mese scompaiono due lingue locali. E con esse scompare inevitabilmente un pezzettino di identità popolare. Ci si potrebbe interrogare e chiedere, a questo punto, quale dovrebbe essere la vera identità di un popolo. Il dialetto inteso come forma discriminatoria, dovrebbe essere rivisto, più che altro, come fenomeno da salvaguardare, per la memoria e la tradizione popolare. Col dialetto non scompare solo una lingua, ma anche quegli usi e costumi che essa stessa traduce, meglio di chiunque altro, in parole e concetti. Per questo motivo la Unipli (Unione Nazionale delle Pro Loco d’Italia) ha istituito ogni anno a gennaio la “Giornata del dialetto e delle lingue locali”, con un premio intitolato 'Salva la tua lingua locale' (giornatadeldialetto@unpli.info).


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