Molta parte della classe politica italiana si arrovella, da sempre, attorno al problema di ricreare condizioni sufficienti per ritornare sulla scena politica come ‘ago della bilancia’. Ago che deve tuttavia ritrovare un proprio filo logico per essere funzionale, altrimenti il suo destino diviene quello di rimanere uno strumento identificato quanto inutile.
Questo filo logico, per i più, è quello di dover “ricostruire il centro”. Ma ricostruire un ‘centro’ può significare ‘indebolire le ali’, Pd e Popolo delle Libertà, in cui militano molti potenziali ‘centristi’. Quindi, nell’opera intrapresa da coloro che lavorano per ricreare questo ‘centro’ viene espresso un giudizio sostanzialmente negativo su chi, da diverso tempo, caratterizza la vita politica italiana e che, non più tardi del 1996, veniva indicato quale nuova espressione di una società che andava vieppiù occidentalizzandosi. Il giudizio espresso verso questa realtà emergente trovava spunto dall’anomalia del ‘sistema – Italia’, che risultava esser quella di avere, al proprio interno, un grande proliferare di Partiti e ‘Partitini’, causa stessa dell’ingovernabilità del sistema. Mentre, dal 1989 prima e da Tangentopoli in poi, tutti, compresi i neofautori del ‘centro’, hanno lavorato per la costituzione di due grandi blocchi politici contrapposti. I neo-centristi, termine composto con il quale non si intende assolutamente creare un collegamento con passati esperimenti politici, ritengono che la mancanza di una vera forza moderata rappresenti, oggi, una delle cause della perdurante instabilità politica del Paese e, quindi, delle mancate riforme.Lo spunto a una riflessione più ampia lo ha suggerito, alcuni anni fa, il compianto Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, il quale sottolineò: “Se si trattasse di rifare la Dc, con tutto il rispetto non sarei con voi. Se, invece, come credo, si tratta di dare il nostro contributo per creare una democrazia compiuta, utilizzando il patrimonio ideale e politico delle grandi tradizioni culturali del nostro Paese, sarò al vostro fianco”. Fermando questo fotogramma del pensiero di Cossiga è possibile condividerne l’immagine e, attraverso questa, i contenuti. Ma se da questa si dovesse, artatamente, avviare un recupero dell’azione politica degli ultimi sessantacinque anni, appare difficile, se non impossibile, convincere gli italiani a rivedere un film già visto e dagli stessi archiviato. Per quale motivo? Semplicemente, perché l’odierna realtà del Paese non è altro che il frutto di una politica ‘arraffazzonata’ e compromissoria. A quale grande patrimonio ideale si è riferito a suo tempo Cossiga, se tutti gli schieramenti portatori di quegli stessi ideali sono usciti sconfitti dalle vicende storiche nazionali e internazionali? E verso quale modello sociale, se ancora possiamo parlare di modelli, il neo-centro ci vorrebbe condurre? Verso quello socialista? Quello laico-repubblicano? Quello cattolico-confessionale? Queste tre ‘scuole’, infatti, non sono affatto convergenti. E se anche convergessero, farebbero ciò in quanto spinti dalla necessità di far sopravvivere un’ideale ‘fiaccola’: la propria. O tutti ci rifacciamo, oggi, a una società liberale? Il liberalismo, in verità, è una implementazione di valori ormai trasversali ai movimenti politici, per la cui affermazione è necessaria una rivisitazione approfondita dell’intera scuola politica italiana. E’ allora possibile riferirsi a una società permeata da una logica statale sul modello del passato sistema democristiano? Anche questa strada non appare praticabile, poiché della passata esperienza è possibile salvare solo quel poco di liberalismo sopravvissuto nella società grazie alla grande fermezza esercitata da soggetti minoritari (Psi, Pri, Pli e Radicali) che sono riusciti a mitigare il ruolo di uno Stato penalizzante verso le più piccole speranze di libertà individuale ed economica. Infine, tra le grandi scuole politiche possiamo annoverare anche il comunismo e il fascismo italiani oppure, ancora una volta, vogliamo commettere l’errore di sottacerne l’importanza nella costruzione storica della nostra odierna società? Questi sono interrogativi che possono apparire inutili, ma che trovano una dignità e, perciò stesso, esigono una risposta. L’impressione che si trae è infatti quella di un tentativo apprezzabile dal quale, però, al di là delle posizioni politiche sull’oggi non si riescono a individuare nuove prospettive e, da queste, interpretare l’ingegneria che si vuole adottare. Proviamo allora a invertire il ragionamento, per poi tornare alle scuole politiche: perché mai molti esponenti politici sentono la necessità di dar vita a un movimento di ‘centro’? Forse perché non si riconoscono nelle politiche espresse dal Popolo delle Libertà e dal Partito democratico? Ciò appare, in fondo, assai comprensibile e legittimo. Tuttavia, proprio per questo motivo occorre molta chiarezza intorno a prospettive programmatiche che non possono rifarsi al passato, bensì indicare con coraggio le tappe da raggiungere nel futuro. E ciò non potrà essere realizzato se non attraverso una critica storica ineludibile, fondamentale per ridare sostanza alla democrazia italiana. L’analisi deve iniziare, come tutte quelle che si rispettino, dalla realtà dei fatti. E questa ci dimostra, innanzitutto, che la società italiana è sostanzialmente conservatrice. Su questo punto tutti concordano: l’Italia è sempre stato un Paese moderato. E anche nelle formazioni più estremistiche possiamo rintracciare, analizzando a fondo ogni diversità, dei ‘filoni’ che si sono sempre dimostrati essenzialmente tali. Se in un dato tempo storico si poteva parlare di classe o di ceto moderato e questo sentimento apparteneva a ristrette ‘elìtes’, oggi tale concezione appartiene a una massa di cittadini che rappresentano una maggioranza, seppur divisa tra i due schieramenti principali. Il sentimento moderato ‘elitario’ era infatti cosa assai diversa dalla moderazione espressa ai giorni nostri. Oggi, la società italiana appare moderata perché è cambiata nella propria composizione interna. E fautore di tale cambiamento è stato un diffuso benessere, mai vissuto prima dal nostro Paese. Quindi, siamo di fronte a una ‘moderazione’ che non possiede, come punti di riferimento definiti, schemi culturali precisi. Ma ciò, ovvero il frutto di sessantacinque anni di Repubblica, non è sufficiente a far rivivere, anche solo nostalgicamente, un periodo che è risultato gravido di incognite. Occorre evitare ogni ‘logorio dei ricordi’, in quanto la domanda corretta non è quella posta nei o dai sentimenti nostalgici, cioè sul perché mettere in discussione decenni in cui la Repubblica italiana ha puntato sul raggiungimento di un benessere collettivo, bensì quella sul perché, nel nostro Paese, non sempre si sia lavorato per lo sviluppo di un più vero ed equilibrato benessere, dandosi finalmente un’anima di nazione. Già da questa serie di contraddizioni emerge il limite di una precisa scuola politica di riferimento quale supporto ideale alla costruzione di un nuovo ‘centro’. Sul minimo benessere diffuso, peraltro doveroso da realizzarsi da parte di una qualsiasi struttura politica democratica, sono state scritte innumerevoli ed egregie analisi, le quali hanno tutte messo in evidenza la grande abilità del popolo italiano a sopperire autonomamente alle carenze del pubblico. Quest’ultimo, infatti, ha saputo ergersi ad artefice di una apparente politica tollerante verso la creatività dei cittadini nella costruzione di una propria agiatezza, benché tale atteggiamento non rappresenti, per logica economica e strumentale, l’esito di una felicità collettiva, favorita da una azione politica lungimirante e sostanziale. Quindi, la moderazione dell’elettorato ha trovato la propria origine nell’aver conquistato spazi economici attraverso il complesso meccanismo del ‘self made man’: in una parola, dell’individualismo. Ed è stato esclusivamente tale meccanismo individualistico a consentire un impatto non del tutto repulsivo nei confronti della inconcludente politica fiscale applicata dallo Stato. Al contrario, sul fronte della cosiddetta occupazione di massa Stato/fabbrica abbiamo assistito al fenomeno di un massiccio aumento di finanziamenti, il cui unico risultato è stata una forte diminuzione dell’occupazione. E ciò anche perché lo Stato ha malamente interpretato una determinata suggestione liberale, intendendola come sostegno ad alcune iniziative private, abdicando quasi totalmente ai controlli sulle ripercussioni delle azioni private stesse nel sociale. Non da ultimo, lo Stato italiano ha storicamente continuato a finanziare imprese il cui risultato, sulla bilancia dei pagamenti, era del tutto ininfluente nell’attivo e, viceversa, pesantemente condizionante sul versante passivo. Non è dunque possibile pensare che una simile politica economica appartenga a una qualsivoglia scuola politica. E ben altra diviene la domanda da porsi: quella relativa al ruolo avuto dai nostri rappresentanti politici. Su tale versante, a parte qualche eccezione, il buon ricordo dei passati decenni inizia a sfumare. Il benessere costruito attraverso una politica statale del ‘laissez faire’, adattata negativamente anche nel sociale, ha generato una massa di cittadini privi di ogni forma di etica solidaristica o cultural-nazionale. Ad esempio: la maggior parte delle abitazioni sono state costruite abusivamente, anche nei grandi centri urbani, un fenomeno contro il quale si è ricorso, per affrontare il dilagante problema, a una lunga serie di sanatorie adottate solo per necessità fiscali, non certo per la qualità ‘ambientale’ venutasi a generare. La maggioranza degli operai e degli impiegati hanno un lavoro definito ‘nero’, mentre i professionisti hanno ampliato l’orizzonte dei propri interventi a causa di deficienze strutturali che hanno causato lo svilimento delle professioni stesse, a danno della qualità professionale effettiva. In sostanza, il popolo italiano, di fronte a un’attività dello Stato particolarmente squilibrata sul versante fiscale, si è creato un proprio ordine individualistico, se non egoistico. E, pur ricercando una qualità migliore della vita, non intende mettere in discussione ciò che legittimamente ritiene di esser riuscito a ‘strappare’ a un mondo politico il più delle volte totalmente inadeguato.