La genuinità esaltata da piccoli invisibili ritocchi che rendono desiderabili i prodotti. È questa la strategia di molte aziende in tempi di crisi. E il consumatore ci casca perché pensa che ciò che è bello sia anche buono. Una 'moda' che non riguarda solo l'alimentare.
La crisi vista con gli occhi dei consumatori. Occhi inconsapevoli, che si fanno ingannare ogni giorno di più dall'aspetto del prodotto più che dalla sua reale qualità. Lo si riscontra nei capi di abbigliamento sempre più sintetici e meno naturali; nel cibo confezionato proposto in confezioni accattivanti che 'nascondono' l'alleggerimento del contenuto nutritivo. Alimenti che appaiono sani e genuini e invece vengono preparati senza olio di oliva e burro, ingredienti troppo costosi che sono rimpiazzati dall'olio di cocco e di palma (grassi saturi dannosi al nostro fegato).È la conseguenza dell'alto costo delle materie prime, una realtà con la quale devono confrontarsi i produttori per far quadrare i conti senza far lievitare troppo il costo finale e non perdere consumatori in periodi così difficili. Certo detta così sembrerebbe una sorta di 'venirsi' in contro'. Ma la qualità, dove la mettiamo?Sì, perché ciò che all'apparenza è sempre uguale agli occhi di chi acquista, nella realtà in termini di peso, ingredienti e porzioni cambia drasticamente. Il tutto, naturalmente, pur rispettando la legge e le dovute indicazioni sulle etichette, scritte magari in piccolo. Il problema è che i consumatori le etichette non sempre le leggono e, anche quando lo fanno, non sempre conoscono gli effetti poco salutari che certi ingredienti possono avere sulla nostra salute, piuttosto che altri. Ma gli effetti devastanti della crisi sulle logiche produttive non riguardano solo l'alimentare. Basti pensare ai camici da lavoro, un tempo prodotti in cotone 100% e oggi quasi totalmente sintetici. Materiale ugualmente ignifugo, se si vuol vedere, ma non certo salutare per la traspirazione corporea. Nel settore tessile italiano l'utilizzo della fibra sintetica riguarda un po' tutto: camicie, maglie, giacche e giubbotti (dove ormai sempre più raro è all'interno l'utilizzo di un'imbottitura di lana o piume d’oca, a favore della fibra artificiale. E la materia prima non è l'unica cosa a cambiare. Esistono anche i processi di fabbrica come, per esempio, il 'salto' di una fase di produzione (come i jeans delavè che invece di tre lavaggi ne subiscono uno o due prima di essere distribuiti per la vendita in negozio). Così, fra una sostituzione e un diverso processo, oggi possiamo trovarci nel piatto un pesto nel quale di pinoli non c'è traccia (dato che costano oltre 18 euro al chilo) perché le aziende lo sostituiscono con noci o anacardi. Insomma una qualità 'scarsa' che va ben oltre il tanto combattuto utilizzo di additivi e coloranti (anche se questi a dire il vero spesso mascherano la qualità reale di frutta e pesce, come la mousse al salmone che deve il suo spiccato colore roseo alla paprika). Così 100 grammi di pesce impanato, in realtà possono contenere farine, amidi e addensanti vari, talvolta persino zuccheri, e solo uno scarso 50% di proteine. Tagli, cambiamenti e riduzione decisi a scapito della nostra salute, per risparmiare oppure ottimizzare i processi di fabbrica recuperando anche materiali fino a ieri considerati di scarto. È il caso dell’Unilever, uno dei maggiori produttori mondiali di oli commestibili, che vista la situazione dei rincari ha cercato strade alternative scoprendo che una maggiore presenza di buccia intera di limone nella maionese, riusciva a mantenerne il gusto classico pur riducendo la quantità di olio impiegata. Una soluzione che ha consentito all'azienda di ottenere contemporaneamente tre risultati: riduzione dei costi, la conquista dei nuovi mercati light e l’elogio nell’America degli overweight per la lotta all’obesità.