Nella vecchia critica ‘marxista’, l’esercito industriale di riserva, ovvero quello composto dai disoccupati, veniva assorbito dallo Stato attraverso un calmieramento dei salari: si prende poco, ma si lavora tutti. Nella logica liberale, invece, la disoccupazione rimane un dato fisiologico, anche se la ‘mano invisibile’ del mercato sarebbe in grado di correggerla, nelle sue fasi espansive, sino al raggiungimento della ‘quasi piena’ occupazione. In Italia, invece, non accade né la prima, né la seconda cosa: si è passati da un tasso dal 6,4% del 1977, a un dato del 10,7% di oggi. In particolar modo, il mercato del lavoro si chiude sempre di più per i giovani: il saggio di disoccupazione dei 15-24enni è infatti salito dal 21,7% del 1977 al 35,3% del 2012, un incremento che vede coinvolti in egual misura sia gli uomini, sia le donne. Per i primi, infatti, il dato è cresciuto dal 18,1% al 33,7%; per le seconde dal 25,9% al 37,5%. Il divario tra il tasso di disoccupazione dei 15-24enni e quello complessivo è andato progressivamente allargandosi dai 15,3 punti del 1977 ai 24,6 del 2012. D'altro canto, l'incidenza dei giovani disoccupati sulla popolazione in questa fascia d'età, nel 1977 era pari a 10,6%, la stessa registrata nel 2012. A livello territoriale la crescita della mancanza di lavoro giovanile presenta intensità e dinamiche differenti. Nel Mezzogiorno, il tasso ha registrato l'incremento maggiore, passando dal 28,3% al 46,9%, al nord è salito dal 17,5% all'attuale 26,6%, nel centro dal 22,4% al 34,7%. Tutto ciò è stato certificato, in questi giorni, dall’Istat, il nostro istituto nazionale di ricerche statistiche. Dunque, una fonte più che certa e affidabile. Meno affidabile, invece, è la struttura complessiva di un mercato del lavoro, in Italia, che ha reso inutili, ormai, i vecchi uffici di collocamento e che, negli ultimi decenni, ha visto una ricerca di mano d’opera tutta effettuata su chiamata diretta da perte delle aziende, se non, addirittura, per cooptazione. Si trova lavoro, qui da noi, se si hanno conoscenze, amicizie, relazioni familiari. In pratica, il sistema della raccomandazione ha surclassato il metodo di collocazione ufficiale. Ciò a discapito persino del fenomeno di ‘segnalazione’ stesso, che non è più veritiero. Un tempo, infatti, un’occupazione veniva offerta, in via eccezionale, tramite segnalazione in quanto effettivamente meritata, poiché il politico o il dirigente di azienda aveva realmente individuato un talento particolare o una persona assolutamente meritevole. Oggi, invece, la gestione del sistema si basa sul diverso grado di raccomandazione, cioè sulla forza o debolezza di questa, la quale stabilisce persino, delle volte, gli incarichi. Per cui, spesso ci ritroviamo segretarie bellissime e ben pagate che rispondono al telefono e si occupano di mansioni puramente accessorie, mentre le addette ‘normali’ debbono accontentarsi degli incarichi più onerosi, con paghe ridicole e contratti a dir poco discutibili. È il discreto fascino della borghesia, diceva Bunuel. Ma la borghesia di un tempo aveva, per lo meno, il gusto dell’eleganza e una buona capacità di strutturazione organizzativa: oggi, nemmeno quello. L’impiegato di concetto tende a scomparire e molti ruoli ‘intermedi’, quelli dei cosiddetti ‘colletti bianchi’, quasi non esistono più. In sostanza, non esiste più distinzione: siamo tornati all’epoca dei padroni, dei dirigenti d’azienda e degli operai. Il vertice e la base: niente più ‘rompiballe’ nel mezzo. Ecco perché non siamo di fronte a una borghesia dotata di un fascino discreto, ma senza più alcun ritegno. Caratteristica, in verità, della borghesia piccola piccola: quella dei ‘cafoni’ arricchiti e dei ‘pidocchi’ rifatti.