L’islamofobìa di questi ultimi tempi è un sentimento provocato ad arte e diffuso in tutta Europa per un’arretratezza di mentalità che rischia di ‘zavorrare’ la società occidentale, svuotando di significato parole come: solidarietà sociale, redistribuzione delle ricchezze, etica delle tecniche bancarie e finanziarie
È possibile leggere e comprendere la struttura e i rapporti che legano gli individui di uno stesso gruppo, studiando e interpretando i rapporti economici che questi intrecciano gli uni con gli altri. Le stesse società contemporanee, come quelle dei secoli passati, possono essere comprese osservando i legami economici che, all’interno di esse, gli individui intrecciano. Cercando con un grande sforzo di alienarsi dal nostro mondo occidentale e dalla nostra comunità, probabilmente è possibile interpretare meglio la lunga crisi economica globale che ha afflitto tutto il mondo sviluppato. Operazione non certo semplicissima all’apparenza, ma certamente, come qualcuno ha già esaustivamente descritto, la crisi di questi anni non è stata esclusivamente di tipo finanziario: si è assistito al disfacimento di quei modelli sociali che, nel secolo scorso, si erano costituiti nel mondo occidentale (e non solo). Ma un occidente principale interprete e responsabile della caduta nell’abisso della crisi e della povertà come non si vedeva dal secondo dopoguerra (con notevoli differenze politiche e con un sentimento comune ben diverso) non è un paradosso. Il Papa, come anche molti altri intellettuali, ha più volte gridato alla crisi di valori e di morale, alla decadenza neo-contemporanea dei costumi, alla ‘mollezza’ dello spirito dei popoli occidentali. Proprio a causa di ciò, autorevoli economisti hanno lanciato una proposta: la finanza islamica potrebbe salvarci. Probabilmente, prima di parlare di salvezza sarebbe bene specificare che l’idea di ‘finanza islamica’ non è un ‘monolite’ che si può afferrare e trasferire nei Paesi occidentali, aspettandosi poi che si compia il miracolo della guarigione. La finanza islamica non è una medicina come l’aspirina, che si prende quando si ha mal di testa e in pochi minuti fa effetto. L’aggettivo ‘islamico’, che nella lingua italiana è aggettivo e non sostantivo, come molti credono, indicando così anche tutti coloro che professano l’Islam, che nella lingua di Dante sono indicati con il termine di origine araba ‘musulmani’, non è semplicemente un modo più esotico per parlare di finanza, ma la connotazione precisa e puntuale di un sistema di valori che nulla hanno a che vedere con l’idea che oggi noi tutti occidentali, europei e non, abbiamo dell’Islam e dei musulmani. La finanza islamica non è Dubai, non è l’immensa ricchezza dei Paesi del golfo Persico, non è lo scintillìo e lo sfarzo degli sceicchi con la ‘djellaba’ bianca e la ‘kefiah’ in testa. La finanza islamica è una ‘struttura’, passateci il termine, che si basa su elementi storici, filosofici, religiosi, etici, morali, teologici, politici ed economici che si sono venuti costituendo nel corso di secoli, da quando cioè, nel VII secolo dopo Cristo, il profeta Muhammad ha ricevuto la sua prima rivelazione dall’Arcangelo Gabriele. La finanza islamica, che a nostro avviso sarebbe più corretto definire ‘economia islamica’, prende forza dalle regole, dai principi e dalle norme previste dal diritto musulmano classico, ovvero dalle fonti classiche del diritto: il Corano; la Sunna; l’ijma (il consensus populi); il qiyas (l’analogia). L’economia islamica, insomma, è l’Islam nel suo complesso. E il Corano stesso può essere interpretato come un testo di economia (non ci dilungheremo su quest’affermazione, rimandando ad altra sede le discussioni e gli approfondimenti, da noi già effettuati in passato, su tale argomento, ndr). Il Corano, testo sacro per tutti i musulmani, racchiude e raccoglie tutti i principi cardine sui quali si basa l’economia islamica: primo fra tutti, il divieto di usura o ‘ribà’, che letteralmente in arabo indica un accrescimento o, più specificatamente, l’indebito accrescimento a scapito di qualcun altro. Il concetto di fondo dal quale deriva tale divieto, non oscuro all’ebraismo e al cristianesimo, basti pensare al notissimo passo del Vangelo di Luca: “Mutuum date nihil inde sperantes”, scaturisce dalla necessità di fondare una comunità (perché la prima grande rivoluzione introdotta da Muhammad nella penisola arabica fu la costituzione di una comunità fondata sulla comune appartenenza religiosa e non più sui legami familiari e tribali) più equa e più giusta, all’interno della quale impiantare regole sociali di redistribuzione delle ricchezze. Di certo, Muhammad non ha mai pronunciato l’espressione: “Redistribuzione delle ricchezze”. Il profeta, infatti, non era certamente un esperto di economia e finanza. Tuttavia, la sua volontà è sempre stata chiara: creare un circolo ‘virtuoso’, in cui le ricchezze e il benessere fluissero in maniera uniforme a tutti i membri della comunità, al fine di non escludere nessuno dall’obiettivo primario di indipendenza economica. A tal scopo, il sistema religioso islamico ha istituito regole e norme precise e rigorose: uno dei pilastri della religione, o arkan al-islam, è la ‘zakat’: l'elemosina rituale (di natura obbligatoria per tutti i fedeli che possiedono dei beni mobili e/o immobili), la cui destinazione è prevista dal Corano e dalla Sunna, che ne indicano i beneficiari in un ordine ben preciso e la cui funzione è proprio quella di dare un sostegno, o un aiuto economico, a chi non possiede i mezzi per essere autosufficiente. Ma la ‘zakat’ non è il solo elemento di sostegno previsto dalle norme islamiche: esistono differenti altre forme di elemosina, come la ‘sadaqa’, per esempio, insieme a diversi insegnamenti profetici, i quali indicano i principi e i sentimenti che debbono stare alla base di una comunità, o della società islamica. Sono princìpi modernissimi, se pensiamo all’attuale situazione economica globale, che prevedono l’impostazione di una società su basi solidaristiche e, conseguentemente, si portano dietro tutto quell’insieme di aspetti etico-morali che tanto, oggi, vengono reclamati e decantati. Etica e morale islamica che, a nostro avviso, potrebbero essere connotate da un qualsivoglia aggettivo, non esclusivamente religioso. In ogni caso, se si vuole parlare di ‘economia islamica’, quella connotazione religiosa specifica non può essere svuotata dal suo valore ‘spirituale’: economia islamica significa certamente un sistema basato sul divieto di usura, sull’elemosina rituale, sul concetto di redistribuzione delle ricchezze e, dunque, di 'compartecipazione dei rischi', dei benefici e delle eventuali perdite. Una solidarietà sociale il cui fine ultimo è quello di incoraggiare l’attività economica e imprenditoriale, fornendo gli strumenti necessari per raggiungere autonomia individuale e indipendenza economica. Economia islamica significa, insomma, rispetto delle norme ‘sciaraitiche’. L’occidente è così certo e convinto di voler introdurre nel proprio ordinamento economico e finanziario ‘laico’ aspetti così marcatamente intrisi di religiosità? Noi riteniamo che, invece di rincorrere la ‘chimera’ della ‘finanza islamica’ per curare i malesseri occidentali, sarebbe più opportuno un esame di coscienza collettivo, finalizzato a prendere atto dei reali motivi della lunga deflazione occidentale, la quale discende, prima di tutto, da una fortissima crisi di valori, non religiosi, né cristiani, come vorrebbe Papa Francesco, né di qualsivoglia altra religione, bensì di una crisi di valori sociali, umani, etici e morali, che non si possono ascrivere ad alcuna tendenza. I concetti della finanza islamica sono certamente ‘rivoluzionari’ per il mondo occidentale. Così come è certamente vero che le banche islamiche, oggi, siano i soli istituti di credito a non avere crisi di liquidità o di altro genere. E’ altresì vero che l’introduzione di sistemi alternativi di finanza, come quello proposto dal mondo arabo-islamico, possano rappresentare un vantaggio, sia per il mondo della finanza, sia per la società nel suo complesso. Ma ciò non può essere un mezzo per combattere le ‘tare’ di fondo del nostro tessuto economico, produttivo e imprenditoriale. Certamente, è corretto osservare i pregi del mondo arabo-islamico, che tanto ha dato alla nostra civiltà: nella scienza, nella medicina, nella matematica, nella filosofia e nell’astronomia. Ma dobbiamo farlo tenendo conto della complessità socioeconomica e antropologica dell’Islam e non limitandoci, da 'bravi colonizzatori', solamente a ciò che più ci interessa per i nostri profitti e i nostri vantaggi. Non comportiamoci come sempre abbiamo fatto nella Storia noi occidentali - e noi europei in particolare - da ingordi divoratori di innovazioni e scoperte, di risorse naturali e profitti, ma cerchiamo, per una volta almeno, di apprendere con umiltà dai nostri vicini musulmani il vero significato della ‘solidarietà sociale’, del concetto di redistribuzione delle ricchezze, di etica delle tecniche bancarie e finanziarie. Smettiamola con il tentativo di accumulare beni per il mero ‘possesso delle cose’, o per fare soldi con i soldi, come è stato fatto mediante le rischiosissime operazioni effettuate con i 'derivati'. Il benessere economico è certamente un obiettivo comune per tutti gli individui di ogni società, ma la ricerca spasmodica ed egoistica della ricchezza non può essere l’unico obiettivo: lo scopo di fondo dev'essere quello di ricreare un equilibrio sociale ed economico, in cui ciascun individuo possa avere accesso al credito e all’iniziativa imprenditoriale. Perché solo così eviteremo di dover guardare attoniti la disperazione di tante persone comuni, che si sentono sconfitte da un’arretratezza di mentalità, prima ancora che economica.
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