La missione di reindustrializzare l’America, che Barak Obama si era prefissato all’inizio del suo primo mandato, finalmente è una realtà. Dopo un lungo periodo di ‘outsourcing’, in cui l’industria Usa ha impiantato per motivi di convenienza le proprie fabbriche nei paesi a basso costo del lavoro (Asia, Sudamerica ed Est europeo), ora si procede al contrario. Il ritorno al Made in Usa è dettato principalmente da due ordini di fattori, come ha spiegato il nobel per l’economia Robert Engle: “la fine della convenienza fiscale nell'investire all'estero e il fatto che costruire una fabbrica negli Stati Uniti è oggi più competitivo”. Da una parte, infatti, con la nuova riforma del sistema fiscale statunitense, non sarà più possibile per le aziende che producono all’estero, non pagare tasse in America sugli utili prodotti (fino a oggi la legge consentiva di depositare i ricavi presso qualche banca dello Stato ospitante o di un terzo paese), e dall’altra, data la forte crisi occupazionale di questi ultimi anni, il mercato del lavoro è debole e si può assumere a costi convenienti.Al di là dei fattori interni del mercato Usa, secondo uno studio di Boston Consulting , qualcosa sta cambiando nelle dinamiche dei costi relativi della delocalizzazione. Perché l’altro volto, tanto inatteso quanto inevitabile, della globalizzazione è l’esportazione verso le economie più povere anche di diritti e regole. Processo che ha visto i lavoratori cinesi, per la prima volta, scioperare per l’aumento dei salari e la riduzione dell’orario di lavoro. Così oggi, produrre in Cina è meno conveniente, perché il costo del lavoro è aumentato. E lo è ancora meno, considerando i bassi livelli di produttività specchio della scarsa innovazione tecnologica dei processi produttivi (un lavoratore americano produce quattro volte di più rispetto a uno cinese). Non sorprende, quindi, il rientro in patria di aziende come General Electric, Hewlett Packard (HP) ed Apple (l’azienda di Cupertino produrrà i suoi computer in casa lasciando in Cina solo la produzione di I-phone e I-pad).Le recenti dichiarazioni di Tim Cook (capo di Apple), “Abbiamo la responsabilità di creare occupazione nel nostro paese”, fanno pensare a un’America che pensa ai suoi figli. In realtà la logica con cui ci si sta muovendo oltreoceano è puramente economica. Una catena logistica troppo dilatata, difatti, ha dimostrato alcuni problemi di ‘risposta’ nei confronti del consumatore. Perché, come spiega Tony Prophet, vicepresidente della Helwett Packard, “è importante poter soddisfare gli ordinativi del cliente americano in cinque giorni”. Che dire poi della Ford, che ha assunto 1.200 operai in Michigan, e delle nuove assunzioni di Chrysler e General Motors che si basano su un accordo sindacale che ha dimezzato gli stipendi dei lavoratori?Al di là degli interessi imprenditoriali, comunque, è chiaro che l’America ha prodotto delle politiche di ricrescita che hanno generato un circolo virtuoso in grado di far superare al proprio mercato interno la Grande crisi: dalla riduzione del costo dell’energia, al sostegno alla ricerca tecnologica, agli investimenti nelle infrastrutture, alle politiche sull’immigrazione (che in Usa è ritenuta ringiovanimento della forza lavoro e crescita del numero di consumatori), fino alla politica del dollaro debole perseguita dalla Federal Reserve (che favorisce le esportazioni). Così, là dove è stato generato quel battito d’ali dei mutui subprime, che ha generato lo tsunami di una crisi globale, oggi il tasso di disoccupazione è al 7,7% (il più basso dal 2008) e i posti di lavoro crescono al ritmo di 150 mila al mese. mentre l’Eurozona sta ancora cercando di capire come uscirne.