Contribuisce per il 9% del Pil, impegnando oltre 2 milioni di lavoratori, quello internazionale arranca con una crescita annua al 2%, ben inferiore alla media europea, eppure, nonostante le criticità del settore, il comparto turistico si ‘arrangia’ grazie al nostro immenso patrimonio artistico-culturale
L’importanza del settore turistico per l’economia italiana è fondamentale, dal momento che contribuisce al prodotto interno lordo con un'importante fetta pari al 9% e costituisce un indotto in cui sono impiegati oltre 2 milioni di lavoratori. Un settore che, per la congiuntura internazionale, l’assenza di una regia unica e l’inadeguatezza delle strutture ricettive, non riesce ancora a decollare. I numeri, in realtà, non sono catastrofici. Dimostrano che l’Italia piace ancora agli stranieri, anche se si potrebbe fare di più. A fronte, infatti, di un incremento del turismo internazionale a livello mondiale, pari al 3,8% nell’ultimo anno (fonte: Organizzazione Mondiale del Turismo, UNWTO, World Tourism Barometer – January 2013), l’Italia si colloca al 5° posto con 43 milioni di arrivi e un incremento di 5, 7 milioni rispetto all’anno precedente. Se pensiamo alla Francia, prima con 81 milioni di turisti, agli Usa secondi con 62 milioni, seguiti da Cina e Spagna, rispettivamente con 57 e 56 milioni, si capisce che il divario da colmare è ancora enorme, per un paese come il nostro, dotato di un patrimonio artistico e archeologico unico al mondo.
Secondo i dati Istat, il flusso di turisti stranieri in Italia si è mantenuto sostanzialmente stabile nel 2012 rispetto all’anno precedente. La parte del leone, ovviamente, spetta alle città d’arte, dove si sono concentrati oltre 21 milioni di arrivi. Con netto stacco troviamo le località di mare (7 milioni). In base alla provenienza, la Germania vince in presenze con quasi 10 milioni, seguita dagli americani che superano i 4 milioni. Se andiamo per regioni, quella più ‘accogliente’ si è rivelata il Veneto, con 10 milioni di arrivi, seguita dal Lazio con oltre 6 milioni e mezzo.
Un discorso diverso riguarda la componente italiana della domanda turistica, vale a dire i vacanzieri ‘nostrani’. Nonostante la stagione balneare sia ormai alle porte, un sottile malcontento sembra far soffiare un’aria ‘freddina’ su tutta la penisola. Secondo il centro di ricerche Insart (Istituto nazionale ricerche turistiche), nel 2013 la domanda domestica è destinata a diminuire. Dall’indagine “Italiani in vacanza nelle regioni”, infatti, il 56% degli operatori (su un campione di 1300 aziende ed esperti del settore), ha manifestato una tendenza al pessimismo. Gli operatori sono seriamente preoccupati per la situazione in cui si trova il turismo in questo frangente, “Non ci sono strategie, si può solo sperare nel recupero di capacità di spesa degli italiani”, questo è uno dei punti evidenziati dall’indagine.
Come ha sostenuto il presidente dell’Isnart, Maurizio Maddaloni, occorre “ripensare il modello di business dei vari servizi dell’offerta turistica, riducendo i costi complessivi senza penalizzare il valore percepito dal turista”. Inoltre, un’operazione di rilancio del comparto turistico non può basarsi soltanto sulle imprese, ma, sostiene sempre Maddaloni, “richiede l’impiego della pubblica amministrazione nell’abbattere tanti oneri che gravano sugli attori del turismo”.
Tuttavia, se in tempo di crisi gli italiani in vacanza spendono meno, è altrettanto vero che spendono meglio. La Coldiretti, infatti, basandosi proprio sugli studi dell’Insart, ha condotto un’indagine che ha rilevato come siano calati drasticamente del 31,5% gli acquisti per souvenirs, gadgets, statuine e quant’altro, mentre è aumentata la spesa per i prodotti tipici, anche del 43%. Chi va in vacanza, insomma, preferisce acquistare liquori, formaggi e salumi tipici del luogo di villeggiatura, o sedersi al tavolo di un ristorante. La spesa per caffè, pizzerie, trattorie e altri locali simili ha sfiorato i 14 miliardi di euro. Ciò significa che il Made in Italy enogastronomico ‘tira’ ancora. Una tendenza che alimenta anche forme di ‘turismo culinario’, alla scoperta di cibi e sapori di una volta.
Un comparto che invece dovrebbe essere rinnovato è quello della ricettività. L’industria turistica italiana dispone di 153.729 esercizi ricettivi e 4.741.738 posti letto (fonte: Istat). L’offerta andrebbe riqualificata. Ne è consapevole Federalberghi, che, delineando il quadro della situazione, ha evidenziato come solo in questo campo ci siano oltre un milione di lavoratori dipendenti. Il turismo dà lavoro al paese, quindi è preferibile non remargli contro. Lo studio di Federalberghi prevede soluzioni e misure anche senza l’aggravio sulle finanze pubbliche. È apparsa evidente, intanto, l’assenza di una governance del turismo, ovvero di una regia comune che sappia coordinarne lo sviluppo nei prossimi anni. Colpa anche di quella riforma del titolo V della Costituzione del 2001, per cui la voce turismo è entrata nella competenza diretta delle Regioni. Ciò significa che ogni qual volta lo Stato prova a dettare una norma in materia, basta l’opposizione di una regione per far nascere un conflitto di attribuzione di poteri, da cui poi si esce con un nulla di fatto in mano. Fintanto che durerà, dunque, questa potestà legislativa regionale, avremo una confusione di ruoli che impedirà uno sviluppo uniforme del settore turistico. Proprio in considerazione di questo tipo di assetto, l’Enit, l’Agenzia nazionale per il turismo che sta tentando di darsi una nuove ‘veste’, più orientata all’innovazione 2.0 (su Twitter è ora presente l’ashtag #nuovoenit2013) ha deciso di puntare a un maggior coinvolgimento delle Regioni nella promozione dell’Italia all’estero.
Un altro aspetto da migliorare riguarda la disponibilità delle risorse da destinare al turismo. Su questo punto anche Federalberghi è convinta che non si possa basare tutto sulle piccole e medie imprese, che, anzi, già troppo hanno fatto negli anni, migliorando la qualità delle strutture ricettive con notevoli sforzi, spesso senza supporti. Oggi, però – si lamenta Federalberghi – queste imprese stentano a trovare i capitali sul mercato per potere allargare la propria attività. Ma questo malcontento corrisponde a verità? Se andiamo a leggere i dati ufficiali, scopriamo che in Italia sono stati stanziati fondi per centinaia di milioni di euro soltanto per l’ampliamento delle strutture turistiche del Meridione. Nel Mezzogiorno, infatti, alcuni anni fa era sorta la società ‘Italia Turismo’, controllata da Invitalia, l’Agenzia Nazionale per l’Attrazione degli Investimenti e lo Sviluppo d’Impresa. Si tratta di una Spa con cui si sta tentando di trasformare e riqualificare quella parte di patrimonio immobiliare della Pubblica Amministrazione ormai in disuso, per sviluppare il turismo nelle aree più depresse d’Italia. Un progetto ambizioso quanto il suo finanziamento: 200 milioni di euro.
Leggendo i dati rilasciati dal Ministero dello Sviluppo, poi, si scopre che l’ Italia ha speso tra il 2011 e il 2012 9,2 miliardi di fondi Ue, cifra ben più alta di quella relativa addirittura al quinquennio precedente. E tra fondi nazionali ed europei, fino al 2016 la spesa sarà di 60 miliardi. Si tratta di soldi, ovviamente, destinati non soltanto al turismo ma che suggeriscono che le risorse per le imprese ci sarebbero, se solo gli enti pubblici predisponessero dei piani di sviluppo e puntassero loro stessi a rinnovarsi (tipo l’idea di trasformare l’Enit in una Spa, che oggi sperpera molto denaro in numerosi sedi estere, quando le stesse potrebbero essere ricondotte nelle nostre ambasciate, consolati e case della cultura). Delle risorse, secondo Federalberghi, potrebbero essere recuperate con piccoli prelievi dal gettito iva e con incentivi alle imprese che puntano all’innovazine. Così come sarebbe il caso di vigilare anche su come vengono spesi i soldi erogati (a partire da quelli che già sono stati concessi). Invece, a proposito degli enti pubblici, sembra sensata l’idea di trasformare l’Enit in una Spa. L’Enit sperpera buona parte dei soldi in numerosi sedi estere, quando le stesse potrebbero essere ricondotte nelle nostre ambasciate, consolati e case della cultura.
Un altro punto che andrebbe ridiscusso è quello della contrattualistica. Dato l’alto numero di lavoratori e la caratteristica della temporaneità del servizio turistico, legato a una stagionalità (ancora troppo breve) i contratti di lavoro dovrebbero essere gestiti con maggiore flessibilità. La parola detassazione, per esempio, potrebbe essere incentivante per chi è in cerca di aiuto ma (come spesso accade) non assume o lo fa in nero. Nell’ambito del contratto di apprendistato (diffusissimo in questo settore) è sparita la figura dello studente minorenne, quello che a fine anno scolastico “faceva la stagione”. In questo modo si è persa l’opportunità di creare una professionalità: in passato in molti hanno imparato nelle ‘stagioni estive’ un lavoro che poi hanno scelto come professione.
Se a questi problemi, infine, aggiungiamo il fatto che non possediamo un trasporto capillare su rotaia, che abbiamo una rete autostradale che va sempre in tilt nei periodi di maggior afflusso turistico, in molti casi poco sicura, che abbiamo aeroporti mal collegati ai vicini centri turistici, andiamo a completare un quadro generale di un’Italia che, per quanto possa essere ‘bella’, ricca di cultura e monumenti storici, non può brillare e risultare attraente come dovrebbe.
Mancano troppi tasselli per completare il mosaico. Appare evidente che per ampliare i nostri numeri, oltre a migliorare i servizi e le strutture, bisogna puntare lo sguardo alle nuove tecnologie che stanno cambiando la modalità di scelta delle destinazioni turistiche. Il turismo 2.0 è fatto di pacchetti low cost che spingono spesso altrove, verso mete lontane dall’Italia. Anche i canali digitali e internet, quindi, dovrebbero essere più sfruttati. Manca soprattutto l’idea che di turismo si può vivere e farlo bene. La varietà di offerta che ‘naturalmente’ possediamo (mare, montagna, laghi, città d’arte e numerosi siti considerati patrimonio dell’umanità dall’Unesco), assomigliano a carte ‘sprecate’, come quelle fortunate di un 'pivello' che non conosce le regole, vince, ma non ‘sbanca’.
Eppure, grazie al suo alto potenziale, il settore potrebbe fare da traino a tutto il carrozzone. Per anni la politica ha stigmatizzato il problema. Soltanto in questi mesi sembra essersi svegliato un certo interesse. Esiste infatti un Piano strategico per lo sviluppo del turismo in Italia – Turismo Italia 2020. Si tratta di un progetto ambizioso, da spalmarsi negli anni futuri. L’idea è stata strutturata dal Gruppo di Lavoro del ministero per gli Affari Regionali, il Turismo e lo Sport (quando era ministro Piero Gnudi, prima del nuovo corso col Governo Letta). La base da cui parte Turismo Italia 2020 è la metamorfosi radicale che il turismo mondiale sta subendo con l’inserimento di mercati emergenti, globalizzazione, nuove tecnologie e concorrenza low-cost. Il ministero si è basato su uno studio della Bcg (Boston consulting group) una multinazionale leader nel mondo per la consulenza strategica di business. Se ‘basarsi’ significhi ‘chiedere una profumata consulenza’ non siamo stati in grado di saperlo. In ogni caso, dopo l’attenta lettura del testo, i nostri ‘decisori’ sul turismo, adesso sanno con certezza che il comparto è chiamato a fare delle scelte strategiche, per ricollocarsi all’interno di un mondo che sta cambiando in fretta. Chi rimarrà al passo, governerà ancora il mercato. L’ex ministro del turismo Gnudi, in una audizione in X Commissione (quella sul Turismo), dichiarava: “In Italia abbiamo sempre considerato il turismo come la Cenerentola della nostra economia, e in questo settore non c'è mai stato un piano del turismo né dei veri interventi o interessamenti da parte dello Stato. Se avessimo investito al Sud…”. La solfa la conosciamo. Il Piano di Gnudi, comunque, prevede ben 61 azioni da compiere entro il 2020. Il Meridione è il territorio su cui si concentreranno maggiormente le azioni di intervento che puntano a creare due nuovi grandi Poli turistici. Per il resto si va dal rilancio dell’Enit (che fino a oggi ha portato avanti una promozione turistica dispersiva, poco incisiva e non è mai stato un vero player), al miglioramento di trasporti e infrastrutture. È prevista anche una formazione ad hoc, gestita dalle università che terranno corsi per preparare gli operatori al management turistico (non avevamo una volta gli istituti dell’Alberghiero, del Professionale?). Nelle intenzioni c’è la modifica al titolo V della Costituzione, per ‘sottrarre’ il turismo dalle materie di cui hanno competenza solo le regioni. E poi ancora, creare un Ministero per il Turismo dotato di portafoglio, che disponga di maggiori risorse. Dare vita a un unico brand Italia, che sia presente ovunque come unico marchio riconoscibile da tutti i visitatori. Tra le azioni valutate ‘a basso impatto’, abbiamo rintracciato quella che prevede la creazione di una 'Film commission' per incentivare la produzione e realizzazione di film in luoghi turistici italiani (come succedeva negli anni ‘60); la creazione di App per tablet e smartphone utili al turista che cerca informazioni sul nostro territorio. Per implementare subito il Piano, è prevista anche la creazione di una task force direttamente dipendente dal ministero.
Insomma, basterebbe che si realizzassero 10 delle 61 azioni proposte per vedere qualche cambiamento positivo.
Al momento viviamo ‘alla buona’, come sempre da italiani. Con le meraviglie archeologiche di Pompei esposte al rischio di crolli quotidiani (e pensare che i reperti ‘imprestati’ al British museum di Londra attireranno oltre 400mila visitatori), con la Valle dei Templi ad Agrigento deturpata da ‘qualche’ casettina abusiva. Viviamo con e nel bello perenne. Ma siamo sempre fermi là, fermi a quei blocchi di partenza, pronti a partire e ripartire allo Start. Il traguardo lo abbiamo raggiunto sempre. Mai come primi.